Il giudizio sull’altro da sé implica sempre una messa a fuoco che solo la conoscenza diretta può far maturare: il coinvolgimento scardina le barriere dell’estraneità e consente di sottoporre a verifica i luoghi comuni di una tradizione ripiegata sulle sue certezze irrigidite.

È l’esperienza che poterono vivere uomini politici, viaggiatori e operatori economici sollecitati dalle circostanze della vita a non rimanere bloccati per sempre in un unico polo del mosaico di comunità e agglomerati statali, in via di continua metamorfosi, in cui si frammentava l’affollata arena del Mediterraneo dei secoli scorsi. 



Fra queste figure di mediatori, in bilico sulle linee di congiunzione che intersecavano e in vario modo mettevano in contatto mondi in larga parte estranei, divisi da una risoluta contrapposizione di interessi geopolitici e di affermazione ideologico-religiosa, si può segnalare quella del diplomatico poliglotta francese Laurent d’Arvieux. Nel 1666 ebbe l’occasione di soggiornare a Tunisi, centro di uno dei domini berberi assoggettati al potere dell’Impero ottomano nel corso della sua espansione lungo la fascia costiera del nord Africa. Le impressioni che poté ricavarne sono raccolte nelle Mémoires du chevalier d’Arvieux. Voyage à Tunis, edite nel 1994 a cura di J. de Maussion de Favières (Parigi, Éditions Kimé) e ora valorizzate in un bel saggio di Steven Hutchinson su Multiple alterities in the Ottoman Empire (all’interno del volume Lepanto and beyond. Images of religious alterity from Genoa and the Christian Mediterranean, a cura di Laura Stagno e Borja Franco Llopis, Leuven University Press, Leuven 2021: uno dei più validi contributi recenti sull’impatto delle diversità culturali nel contesto europeo del pieno Cinquecento).



Senza indulgere a un’anacronistica idea di perfetta tolleranza paritaria, il nobile cavaliere d’Arvieux faceva semplicemente leva sulla registrazione del comune fondo di umanità percepito emergente nell’incontro con l’altro da sé, al di là di ogni abissale distanza di rango sociale e di impostazione intellettuale o di concezione generale della realtà del mondo e del suo rapporto con il divino: “Ciò che ho visto a Tunisi – ha lasciato scritto nelle Mémoires – mi ha convinto che questi popoli sono anch’essi umani”.

Il rifiuto della mostruosità diabolica che ognuna delle due parti in conflitto attribuiva polemicamente all’avversario per demolirne la fisionomia ostile non esitava a misurarsi, nella logica del discorso di d’Arvieux, con il test apparentemente più sfavorevole costituito dall’istituto dello sfruttamento schiavistico. Uno degli scopi principali delle razzie barbaresche e ottomane sul suolo cristiano era, infatti, il bottino di uomini e donne da mettere in vendita per farne manodopera servile e riserva di braccia a favore degli equipaggiamenti navali e delle strutture di sostegno del dominio ottomano. Ma anche su questo fronte d’Arvieux era così disincantato e realista da scorgere l’inesistenza di un’asimmetria sostanziale tra lo schiavismo musulmano a danno dei fedeli cristiani e quello, di segno inverso, dei paesi cristiani a spese dei nemici assoggettati e dei gruppi umani ritenuti inferiori con cui si stabilivano rapporti di sudditanza: “Si immagina che i cristiani che hanno la sventura di finire schiavi in Barberia vi siano sottoposti ai tormenti più crudeli e inumani. Esistono persone che per eccitare lo spirito di carità dei fedeli avvalorano con baldanza queste pie menzogne: la loro intenzione, per quanto a fin di bene, resta sempre una impostura. (…) Io sono rimasto prigioniero di questo errore come molti altri, e forse ancora ne sarei vittima, malgrado ciò che avevo riscontrato nelle altre contrade dell’Impero ottomano dove sono stato; ma quanto ho visto a Tunisi mi ha aperto gli occhi. È vero che vi si ritrovano padroni di umore malvagio, duri, opprimenti e persino crudeli; ma sappiamo che ci sono padroni sul suolo europeo che non sono più ragionevoli e potrebbero forse dimostrarsi persino più barbari di quelli di Tunisi se avessero sotto di sé degli schiavi”.



Simili aperture alla volontà di comprensione degli interlocutori anche più ostici erano senza dubbio un’eccezione, decisamente in controtendenza rispetto alle griglie di pensiero più diffuse. Trovano però conferme significative nei riscontri forniti da altri osservatori spudoratamente anticonformisti attratti dal beyond, da quel “diverso” che stava al di fuori del recinto dei propri confini di sicurezza. È il caso, ormai a Settecento inoltrato, di un altro diplomatico sempre francese, favorito nelle sue prese di posizione dall’ondata montante della cultura illuminista. 

Si tratta di Jacques Philippe Laugier de Tassy, che nella sua Histoire du royaume d’Alger, pubblicata ad Amsterdam nel 1725, rileva le tracce dei margini di accettazione delle “altre religioni del Libro” da parte dei dominatori musulmani e conclude la sua descrizione affermando che “il cuore dell’uomo è lo stesso dovunque”: cambiano solo le influenze geografiche e culturali da un luogo all’altro. 

Pochi anni più tardi, fu un diplomatico questa volta di nazionalità inglese, Joseph Morgan, a riproporre le medesime linee di approccio nel tentativo di rimediare ai condizionamenti unilaterali e all’ignoranza tipici dello sguardo degli europei colti gettato sul mondo africano con la sua Complete history of Algiers, del 1731.

La scoperta delle pieghe più nascoste dei costumi sociali impiantati sulle sponde del Maghreb potrebbe facilmente essere avvicinata alle situazioni di promiscuità e almeno parziale fusione tra elementi di civiltà e tradizioni politico-religiose in sé alternative che hanno contrassegnato la polverizzazione della diaspora giudaica in tutto il contesto del Mediterraneo islamizzato, oppure in riferimento alle complesse vicende dell’ibridismo plurireligioso dell’Egitto copto, dei Luoghi Santi di Palestina o della Grecia e dei Balcani ortodossi. L’estirpazione delle minoranze ingabbiate nei blocchi di potere egemonico e l’appiattimento omogeneizzatore non sono stati dovunque la regola, come non lo era stato, nei secoli immediatamente precedenti la fine dell’epoca medievale, all’interno delle varie dominazioni musulmane succedutesi in Sicilia e ancora più a lungo nella Spagna, specialmente nel sud andaluso, dal califfato di Cordova fino alla splendida Granada dei Nasridi.

Seguendo il filo delle evidenze documentate da un complesso di dati storici oggettivi si è portati a risottolineare la forte pluralità eclettica delle realtà umane e delle tradizioni culturali che, amalgamandosi tra loro fino al punto di entrare in rotta di collisione, hanno plasmato il volto contrastato del mondo mediterraneo all’aprirsi dell’età moderna. Nessuna di queste forze storiche è stata in grado di imporsi come unico centro di gravitazione dominante. Si è assistito all’assemblaggio del molteplice, secondo linee di evoluzione in base alle quali le singole identità chiamate in causa non si sono limitate a giustapporsi, ritagliandosi ognuna i propri spazi separati. Esisteva anche lo sviluppo nel senso della permeabilità reciproca e in diverse circostanze, evitando di distruggersi a vicenda, ci si poteva rendere compatibili nel quadro di una coesistenza più o meno coatta e non raramente anche dispoticamente autoritaria. Le necessità del convivere entro ambiti di vita comune generavano inevitabilmente fenomeni di contaminazione, trasferimenti da un campo all’altro degli schieramenti, riassorbimenti delle diversità in un alveo che non era solo il solco tracciato dalle pulsioni offensive di un dualismo nettamente bipolare.

In questa capacità di stabilire punti di sutura tra mondi in conflitto si sono specialmente distinte le realtà sociali disposte lungo le linee di confine delle aree di influenza controllate dai centri di potere di rango primario. Ma è ragionevole ritenere che questo “confine” non fosse la spaccatura di una faglia geologica, tale da dividere nettamente due omogenee macroaree di civiltà in lotta tra di loro unicamente per la conquista di una egemonia esclusiva. Piuttosto, dobbiamo equiparare l’idea di confine a una “vasta e fluttuante zona di contatto”, al “mobile fronte” di un limes, “costantemente ridefinito in base al bilanciamento della potenza degli Stati e ai flussi di circolazione che senza sosta lo trasgredivano” (Bastien Carpentier, in Lepanto and beyond, p. 241).

In questi effervescenti spazi intermedi, nel mondo dell’in-between che metteva in collegamento e faceva interagire i diversi fulcri dell’alterità culturale, le spinte di interdipendenza si annodavano ai blocchi di chiusura e le disponibilità al dialogo potevano rovesciarsi con immediata prontezza nelle reazioni di attacco contro gli sfregi subiti. Soprattutto nella contorta fascia di congiunzione tra la cristianità e i poteri avversi del concorrente monoteismo islamico anche la pratica sistematica della guerra, straordinariamente redditizia per i fautori che la finanziavano e ne imbastivano l’organizzazione, era il vertice spigolosamente estremo dell’esigenza di costruire comunque una relazione, al limite di rifiuto e di combattimento aperto, con chi – da vicino e potenziale alleato – si trovava a scivolare nello scomodo ruolo del rivale da contenere nelle sue pretese, se non del nemico mortale da abbattere a ogni costo.

(2 – fine)

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