Non so se possano star bene alla cronaca giudiziaria e al diritto processuale le parole “chirurgia di una nazione”. È esperienza comune, tuttavia, che alcuni fatti e i relativi procedimenti che ne seguono davanti a una Corte subiscano la maledizione di dover esercitare una sorta di potere taumaturgico, di offrire una radiografia di consolazione ad un Paese. In Italia abbiamo perso l’occasione per i processi sulle stragi negli anni di piombo: troppe verità, nessuna verità; troppi colpevoli senza volto prima del processo, pochissimi e poco convincenti colpevoli con un volto alla fine dei processi.



Ci abbiamo riprovato con Tangentopoli e un’intera nazione, col carico di bile che è arrivato fino ai giorni nostri, ha cercato l’avvicendamento di un ceto politico per via giudiziaria, provando a creare un racconto di resistenza strenua alla corruzione che purtroppo non apparteneva alla verità storica della giurisdizione e alla verità processuale dei fatti costituenti reato.



Ora la Francia ci prova col maxiprocesso per i fatti del Bataclan, la prestigiosa, contemporaneamente alternativa e profondamente mainstream sala da concerti parigina trasformata in una carneficina per oltre cento vittime da un commando di terroristi. Quel processo – c’è il rischio di fare questo errore di focalizzazione – gli ingredienti per fungere da autobiografia derivata di uno Stato li ha tutti. Vuoi e non vuoi, rimanda ai deficit dell’assimilazionismo francese, che non ha integrato generazioni di propri cittadini dalla nascita; rimanda alle lacune dei servizi di sicurezza e all’oggettiva condizione di fragilità che può assalire ogni apparato durante un attentato; richiama l’ignavia decisionale di certa politica autosufficiente a se stessa; richiama pure le colpe di intelligence, le vistose falle di una macchina non messa in opera.



Emmanuel Carrère sta seguendo il procedimento per la stampa italiana, con torrenziali reportage a puntate e sia chiaro: è un esperimento letterario che il cronista quanto lo scrittore e l’intellettuale hanno sempre fatto nella storia della cultura civile dal Dopoguerra ad oggi. Capitava ai Consolo e ai Pasolini, ai Foucault. Capitava perché lo scrittore, forse più umorale del giurista, all’atto giudiziario rischia di preferire l’antefatto, il motivo (emotivo e soggettivo), lo squarcio, la storia, l’affresco, non il contesto, la selezione, la causa.

E Carrère sa far del suo: un po’ di presenzialismo quando promette di uscirne cambiato, umanità quando trasforma le dichiarazioni in storie e fotografie di famiglia, postura polemica e cipiglio dell’intellettuale “contro”. Contro a cosa? Ma certo: al senso comune! Salvo poi accorgersi che c’è una corrente a guidare anche quelli che credono di guidare contro la corrente.

La giustizia mediatica riguarda l’aula e il racconto dell’aula nella vita, il che fa male all’una e all’altra. In un procedimento in cui per gli atti istruttori si sono scelti incomprensibili silenzi su parole come “islam” e “fondamentalismo”, viene quasi da ripensare alla carità di un pensatore dichiaratamente laico come Borges: se commettessi un delitto in nome di un Dio – questo il ragionamento – i fedeli di quel Dio che ho abusato dovrebbero pur sapere che sono un mascalzone.

I quattordici imputati stanno dimostrando tuttavia che la fede conta poco, che la discussione è tutta spostata sul terreno geopolitico e politico, l’alibi perfetto per creare postuma la coscienza di ogni mattanza: anche voi occidentali – un voi generico che però non ha nome e rischia soltanto di sembrare tanto maschera – avete ucciso donne e bambini. Solo che, senza malizia, quel voi è così impercettibile rispetto al noi concreto e immediato dei rei che escono da un verdetto specifico, pur certo potendo continuare a professarsi innocenti, come scriveva Suárez, ben dopo che la pena sia stata irrogata ed espiata, se del caso oggi nel diritto laico accedendo persino alla revisione del processo.

Un processo in cui non la pazienza investigativa o l’afflato umanitario si cerca, insomma, ma sezionare l’involucro edipico che si pretende debba sempre comunque legare le vittime ai loro carnefici. Ahmed Merabet, il poliziotto musulmano ucciso nella strage di Charlie Hebdo, o la ricercatrice italiana perita al Bataclan, Valeria Solesin, avrebbero forse sperato di non finire mai sotto il tiro di tanta retorica a inchiostro, attinta nel sangue dei proiettili che li hanno uccisi.

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