L’incipit leggendario: “Longtemps, je me suis couché de bonne heure” (“Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera”, nella traduzione di Natalia Ginzburg); il bacio della buonanotte della mamma; il sapore della madeleine, il biscotto intinto nella tazza di tè, da cui esce miracolosamente tutta l’infanzia, con i fiori del giardino, le ninfee della Vivonne, i bravi abitanti del villaggio la chiesa e tutto il paesino di Combray; il sentiero dei biancospini, incantevoli nella loro silenziosa immobilità; i campanili di Martinville, “sui quali batteva il sole al tramonto” e l’intuizione “che c’era qualcosa dietro quel movimento, dietro quella luminosità, qualcosa che essi sembravano nello stesso tempo contenere e nascondere”; l’incanto di una passeggiata sotto la pioggia, di un cancello socchiuso, il fascino inesprimibile della petite phrase della Sonata di Vinteuil, udita da Swann nel salotto di Madame Verdurin; la decisione di diventare scrittore per ricreare l’azzurro raggio di sole filtrato attraverso le vetrate della chiesa di Combray; l’apparire improvviso di un tetto, un riflesso di sole su una pietra, l’odore di una strada. E, sul piano strettamente biografico, la dedizione assoluta di uno scrittore verso la sua opera, quale forse non si era mai vista; l’autoreclusione in una stanza foderata di sughero “come un turacciolo”, per isolarsi da qualunque rumore…
Ce n’è abbastanza per costruire un mito, forse il più misterioso della letteratura universale: Marcel Proust, di cui ricorre quest’anno il centenario della morte. Per la sua opera-mondo, Alla ricerca del tempo perduto, oltre 3.500 pagine distribuite in sette volumi, si è soliti parlare di “cattedrale”, definizione che ci richiama un’altra grande cattedrale della letteratura, la Divina Commedia di Dante. Al pari del capolavoro dantesco, sono due gli aspetti che più si impongono al lettore: come diceva Auerbach a proposito della Commedia, da una parte l’impressionante architettura dell’insieme, dall’altra la precisione, anche lessicale, dei particolari.
Proust accostava la sua opera a due grandi costruzioni: la Comédie humaine di Balzac e la Tetralogia di Wagner. In una lettera al critico Jacques Rivière, Proust si complimentava con lui, rallegrandosi che finalmente qualcuno avesse capito “che il mio libro è un’opera dogmatica e una costruzione”. Non un’opera ideologica, ma una costruzione. “Questa evoluzione del pensiero, non l’ho voluta analizzare astrattamente, ho voluto ricrearla, farla rivivere”, affermò.
Analogamente alla Commedia dantesca, la Recherche è racchiusa in una cornice: se la parola “stelle” chiude tutte le cantiche, qui la parola tematica è “tempo”, che apre e chiude il libro e, come volle sostenere Proust, l’inizio e la fine furono scritti simultaneamente. Lo scrittore francese cercava “leggi universali”, secondo Giovanni Macchia; al pari di Dante che, alla fine del Paradiso, scrive, approssimandosi alla visio Dei: “nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna”. In Dio, infatti, “si racchiude in un’unità fatta di amore ciò che appare disperso nella molteplicità dell’universo, come i vari quaderni, o fascicoli sparsi, si riuniscono a formare un solo volume. La prima cosa che Dante vede in Dio è dunque il mistero dell’unità del molteplice, che egli raffigura con l’immagine, certo a lui cara del libro: nel mondo vediamo come fogli sparsi, “squadernati”, ciò che in Dio è unito in un volume unico e ha dunque un ordine e un senso”, ha scritto una delle più profonde conoscitrici dell’opera dantesca, Anna Maria Chiavacci Leonardi.
E come Dante, Proust voleva conservare, trattenere qualcosa che aveva visto: si sentiva come Noè nella sua arca. Dante inizia il suo cammino nel buio della selva, ma anche la Recherche inizia con l’oscurità; il narratore è semiaddormentato. Ma qui mancano Virgilio e Beatrice, il narratore dispone solo della sua coscienza. Nel grande libro tutto accade come un avvenimento: il mondo sommerso riaffiora tout à coup, di colpo, all’improvviso. “Le cose capitali non nascono mai, nella Recherche, dagli sforzi dell’intelligenza e della volontà, che fanno impallidire le cose. Acquistare le cose supreme non dipende da noi: nostra può essere soltanto l’attesa”, scrive Pietro Citati nel bellissimo La colomba pugnalata. Il ricordo metafisico è un dono, prosegue il critico, e come tutti i doni dobbiamo riceverlo passivamente.
“Ma chi regala il dono? Chi fa risvegliare i ricordi chiusi nella tazza di tè, nelle pietre ineguali, nel suono del cucchiaio, nell’asciugamano rigido? Un cristiano, come Proust non era (o era in parte) avrebbe detto: la grazia. All’inizio della Recherche, Proust dice con chiarezza: la nascita del ricordo metafisico dipende dal caso. Dobbiamo accettare la risposta: tutto l’edificio della Recherche si regge sul caso; il quale però ci invia soltanto segni che conducono verso l’Essere e l’Uno, come sono abituati a fare gli dèi”, conclude Citati. Il caso, per un uomo in ricerca come Proust, si presenta come il nome laico del Mistero.
Non è possibile ridurre l’opera di Proust alla sola letteratura. Ha scritto Giovanni Raboni, il grande poeta milanese che fu il primo a tradurre, in solitaria, l’intera A la recherche du temps perdu, impresa durata dodici anni e che lasciò un’impronta indelebile sullo scrittore: “la Recherche è uno dei grandi avvenimenti dello spirito umano”; c’è nell’autore una “tensione verso una salvezza globale, verso un’esperienza spirituale assolutamente radicale e globalizzante”. Pur non essendo dichiaratamente credente, Proust nella sua opera esprime “un aspetto quasi teologico di ricerca della verità e della salvezza”.
Per questo, Raboni intitola i suoi saggi su Proust La conversione perpetua: “nel senso che non è una conversione che avvenga una volta per tutte o che riguardi chi ha personalmente ricevuto la ‘grazia’. È una conversione che viene raccontata, che diventa l’oggetto stesso, il senso profondo e centrale dell’opera stessa”; essa viene consegnata, offerta al lettore. Precisa Raboni: “l’esperienza religiosa non è qualcosa che si costruisce, è qualcosa che si riceve, però la si deve in qualche modo meritare e tra i modi di meritarla c’è anche quello di meditare gli exempla di chi l’ha già ottenuta”. Si tratta di un avvicinamento continuo alla verità o alla “ricerca della verità”; non a caso, questo era uno dei primi titoli a cui Proust aveva pensato per il suo romanzo.
È pur vero che il lettore comune può sentirsi poco incoraggiato dal prendere in mano questo libro, intimorito dalla sua vastità, dalla tortuosità della sintassi e dalla lentezza esasperante, soprattutto delle prime pagine, che fece sbottare un critico impaziente: “sarò particolarmente tonto, ma non riesco a capire come questo signore possa impiegare tante pagine a descrivere come si gira e si rigira nel letto prima di prendere sonno”. Ma è anche vero, come ricorda Raboni, che una volta entrati nel grandioso edificio, non possiamo non amare Proust, sentendolo fratello.
Scrive Raboni: “amare Proust vuol dire essere convinti che esista un rapporto speciale, particolarmente continuo e sottile, fra la sua scrittura e la nostra vita: che ciò che è scritto nelle sue pagine ci riveli minutamente e incessantemente noi stessi”.
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