Il romanzo in versi Evgenij Onegin di Aleksandr S. Puškin è probabilmente l’opera che ha prodotto una delle maggiori rivoluzioni letterarie di tutti i tempi: in un certo senso, da essa nascono la letteratura russa dell’Ottocento (cioè uno dei capitoli più formidabili della letteratura mondiale di tutti i tempi: bastino a dimostrarlo Tolstoj e Dostoevskij) e la stessa lingua letteraria russa, che prima di esso aveva solo pochi e incerti esempi. Puškin lo creò attingendo dalla lingua popolare, dallo slavo ecclesiastico, dal confronto continuo con gli scrittori precedenti e con la grande letteratura classica e romantica dell’Europa occidentale, soprattutto con quel Byron che in questo poema riuscì finalmente a lasciarsi alle spalle.



Ma l’Onegin non è importante solo nella storia della letteratura russa: fin dal suo apparire esso è talmente penetrato nella memoria e nel cuore di milioni di russi da essere diventato una delle espressioni più chiare della loro anima. Io stesso ho incontrato persone (badanti russe, impiegati, insegnanti) che sapevano ripetere a memoria, commuovendosi fino alle lacrime, interi brani del poema di Puškin. Non abbiamo nella nostra tradizione un autore che gli corrisponda. Forse esistono singoli versi della nostra poesia universalmente conosciuti (che so: “amor ch’a nullo amato amar perdona”, “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, “m’illumino/d’immenso” e poco altro), ma non li ripetiamo con la stessa struggenza con cui i russi dicono a se stessi Puškin.



La trama dell’Onegin è semplicissima: l’ossatura è data dalla storia d’amore tra il protagonista, che il poeta definisce “dandy pietroburghese”, e Tatjana. Si incontrano praticamente due volte: nella prima si innamorano, ma Evgenij rifiuta Tatjana perché non crede nella stabilità dell’amore, nel matrimonio e in quelle robe lì. Quando si rincontrano Tatjana è sposata con un nobile dell’alta società, lui la rivede splendida ma stavolta è lei a dirgli di no, anche se lo ama. Gli studiosi dicono che il poema trasforma il romanticismo europeo nel realismo russo. Gli otto capitoli di cui è composto, scritti in quasi dieci anni e pubblicati a puntate a cominciare dal 1823, raccontano anche la maturazione personale di Puškin, che nello stesso lasso di tempo passa dalla giovinezza goliardica e scapestrata alla maturità adulta e tragica: morì in un duello, ucciso da colui che gli insidiava la moglie.



Nel romanzo in versi la figura che spicca magnifica è Tatjana; non a caso Dostoevskij riteneva che il suo nome avrebbe dovuto dare il titolo all’opera. Tatjana ama in modo trasparente e concreto: è la semplicità e la profondità dell’amore, dell’adesione alla persona amata. Allo stesso modo, ritrovando Evgenij, sa compiere il sacrificio di se stessa, rifiutandone l’amore perché già sposata. È lei che realizza il passaggio dal romanticismo di astratta assolutezza al realismo (passaggio rispetto al quale oggi, in tutto il mondo, stiamo tornando indietro). Evgenij non capisce niente: è il “giovin signore” russo che crede che la vita sia godere il piacere finché si è giovani e poi… ci si penserà.

Il genio di Puškin sta anche nel fatto che il capitolo sulle gioie della gioventù, il primo, è l’unico in cui spiri un po’ di allegria: gli altri sette sono caratterizzati da una tragedia crescente. La tragedia sta nell’incapacità di Onegin di aderire alle evidenze della propria vita, innanzitutto l’amore di Tatjana, in nome di principi edonistici che lo perderanno. Sinjavskij parla del nulla e dello scherzo di Evgenij. Tra loro due, Puškin mette in scena altri personaggi che tratteggiano la realtà della società russa, ad esempio della servitù della gleba, autentica schiavitù contadina in voga ai suoi tempi. Noi siamo abituati all’arte che rappresenta la realtà, ma a quei tempi fu uno shock sociale, perfino politico. L’autore fu allontanato ai confini della Russia, nel Caucaso e in Moldavia (dove iniziò a scrivere il poema), per certe sue prese di posizione personali e politiche.

L’Onegin è un’opera letteraria che chiunque in Italia si occupi di materie umanistiche (insegnanti, giornalisti, studenti, scrittori) non può ignorare; è capitale cioè non solo per la letteratura e l’anima dei russi, ma un classico universale. Qualcosa di Omero, Shakespeare, Cervantes, Hugo e Puškin un italiano che si occupi di lettere deve aver letto. Il problema è la sua traduzione, essendo scritto in un ritmo lontanissimo dalle nostre abitudini di lettori.

Dirò solo, per non annoiare chi legge con questioni tecniche, che si tratta di tetrapodia giambica. Il ritmo non è una questione secondaria, e non solo se si parla di poesia o musica. Probabilmente ognuno di noi, quando usa le parole (parlando, leggendo o scrivendo) possiede un suo ritmo. La lingua è ritmo. Tutti cerchiamo di parlare imitando un respiro interiore, e forse adeguandoci a un respiro che sentiamo nel mondo. E la lingua poi, anche quando è scrittura e lettura, è sempre solo orale: respiro, appunto, voce e ritmo. I poeti cercano di codificare questo ritmo in forme durevoli e universali, tanto che tradurre poesia da una lingua all’altra è tradurne eminentemente il ritmo originale.

Chi finora ci aveva provato con Puškin era giunto a soluzioni parziali. Ettore Lo Gatto, uno dei fondatori novecenteschi della slavistica italiana, aveva tradotto l’Onegin in endecasillabi, facendo il passaggio dunque non solo dal russo all’italiano, ma anche da Puškin al verso familiare al nostro orecchio, essendo quello di Dante, Petrarca, Tasso, Ariosto e cento altri poeti italiani. Giovanni Giudici adotta la soluzione di ronzare intorno al novenario, avvicinandosi per quantità di sillabe ma non più di tanto; inoltre non conosceva il russo e la sua traduzione possiede più che altro il fascino del rapporto da poeta a poeta. Altri hanno compiuto rinunce addirittura maggiori: Eridano Bazzarelli traduce facendo a meno del verso e con lui il “romanzo in versi” di Puškin diventa un romanzo e basta, appena un po’ lirico.

Ora finalmente è disponibile in italiano una traduzione che rispetta non solo il lessico e il contenuto dell’Onegin, ma anche il suo ritmo. È quella di Giuseppe Ghini, pubblicata da poco negli Oscar Mondadori. Dobbiamo la traduzione di gran lunga migliore alla sua raffinata competenza linguistica, filologica e letteraria (Ghini è professore di letteratura russa all’Università di Urbino) e anche, aggiungerei, alle sue notevoli antenne poetiche, espresse appunto traducendo.

Gli umanisti di casa nostra e tutti i lettori che sanno godere di un’opera che può cambiare non solo il corso della storia della letteratura ma anche la vita, non hanno più scuse per non attingere al romanzo in versi di Puškin: questa versione italiana di un grande classico è destinata a sua volta a diventare un classico durevole della traduzione.