Un grande traduttore biblico e teorico della traduzione, Henri Meschonnic (Poétique du traduire), ha scritto che di solito, davanti alla scelta tra il mostrare la traduzione per quella che è o nasconderla, si preferisce di gran lunga la seconda opzione, cercando espedienti per ottenere l’effetto di naturalezza. Tale processo comporta la soppressione delle differenze tra le lingue. Si tratta di un tentativo di nascondere l’alterità cui la lingua diversa ci richiama.



Meschonnic definisce questo effetto “annessione”, cioè l’annullamento del rapporto testuale tra i due testi coinvolti, l’inglobamento del testo originario nella cultura ricevente annullando le differenze di cultura, epoca, struttura linguistica. Un rifiuto dunque di voler riconoscere l’irriducibilità dell’altro. È per questo che Meschonnic ha ricordato che la traduzione obbliga a ripensare concetti come quelli di identità e alterità perché è un’esperienza in cui il rapporto fra questi due termini viene messo in gioco costantemente.



Emmanuel Lévinas ha riconosciuto un tratto analogo alla filosofia occidentale sottolineandone il tratto violento di conquista del diverso da sé. Un’idea che fondandosi sul concetto di identità guarda sempre all’altro a partire dal sé. Una filosofia che ha giustificato quel principio di dominio che ha caratterizzato l’Occidente e che consiste nell’annessione e oppressione dall’altro da sé. Rispetto a tale pensiero Lévinas sottolinea che occorrerà pensare “questa differenza tra me e l’altro, questa disuguaglianza, in un senso assolutamente opposto all’oppressione” (E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza).



In traduzione all’annessione Meschonnic contrappone il decentramento, che è il considerare la traduzione non come trasporto del testo di partenza in quello di arrivo attraverso un processo di annientamento del diverso, ma come il dialogo fra due poetiche. Un modo per affrontare la provocazione dell’intraducibilità. Mi sembra un bel modo di pensare la questione di come porsi di fronte all’altro, accogliere l’altro in quanto altro, non temere l’incontro con il suo sguardo anche se sarà sempre per noi un limite che ci interroga, lo sguardo che ci fissa e che non possiamo fuggire.

È stato ancora Lévinas a ricordarci che la relazione con l’altro marca la differenza fra Abramo e Ulisse. Abramo riconosce l’alterità e si pone in ascolto, per Ulisse l’altro è molto spesso una difficoltà che si frappone alla strada del ritorno: “Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta” (E. Lévinas, La Traccia dell’Altro).

Pensiamo ai viaggi di Ulisse e Abramo, partono entrambi per un lungo peregrinare. Il primo per ritornare, il secondo verso l’incognito. Ulisse ritorna a quello che era, il suo viaggio è circolare. Passa attraverso mille incontri e prove ma alla fine torna a ciò che conosce. C’è un gusto nel viaggio stesso, come dirà Kavafis, che però è dato dal mirare sempre a Itaca. Un’apertura al diverso che però deve inevitabilmente tornare al proprio.

Abramo sperimenta il totalmente altro ascoltando una chiamata che gli dice lech lecha, “vai, vattene dalla tua terra”. Abramo abbandona tutto e si vota all’erranza, è l’Ivri, etimologicamente colui che viene da un’altra sponda e va verso un’altra sponda, e che non torna più indietro. La sua meta è data da qualcun Altro che lo guida.

È diverso il viaggio di chi ritorna, o pensa anche solo di ritornare, e di chi va senza ritorno. Ulisse è guidato dal ritorno a casa, Abramo è su un cammino di desiderio aperto all’impossibile che gli riserva Dio. È un nomade. Si pone sulla strada di un incontro che può essere imprevedibile e che lo pone innanzi a un’alterità che è irriducibile a sé. Lo porta a un altro che non potrà essere mai compreso del tutto. In questo senso l’altro è immagine dell’Altro. Dio stesso è nomade perché non ha né un posto né una parola con cui può essere fissato. È l’indicibilmente Altro.

L’incontro con l’altro è, dice Lévinas, l’incontro con il volto dell’altro, con la sua unicità. Un incontro non reciproco, perché c’è sempre asimmetria in questo rapporto data dal fatto che l’altro non è afferrabile. “Il suo volto entra nel nostro mondo provenendo da una sfera assolutamente estranea, cioè precisamente da un assoluto che, d’altra parte, è il nome stesso dell’estraneità profonda” (E. Lévinas, La Traccia dell’Altro)

Abramo va verso una direzione imprevista, impossibile da prevedere anche avendo fiducia della promessa che l’aveva mosso. Scrive Lévinas che in questo senso Dio è sempre al di là di quello che possiamo pensare o sperare di incontrare.

Partire come fa Abramo è perdere qualcosa senza sapere se si avrà altro in cambio. Rischiare di non ritrovarsi per lasciarsi sorprendere da quell’Altro che ci ha detto “vai”.

È il rischio di perdere ciò che già si aveva o si era immaginato ma per guadagnare qualcosa di più essenziale e radicale.