Il fatto che esista un comune fondamento alla base dell’identità umana e delle sue esigenze primordiali può essere rilevato in termini di ragione, fuori da ogni rivelazione religiosa, da una scelta di campo settoriale, che si proietta su una personale visione del mondo. Ma nella dialettica reale della modernità più avanzata la certezza sull’esistenza incontrovertibile di questo fondamento, e lo stesso riconoscimento dei suoi contenuti determinanti, assolutamente irrinunciabili, si sono inesorabilmente annebbiati.



L’opinione diffusa, quella che possiamo chiamare la “cultura dominante”, oscilla, si interroga inquieta e preferisce arretrare su posizioni di sospetto, di manipolazione, di rimodellamento artificiale di ciò che è l’ossatura di una “natura” indistinta e valida per tutti allo stesso modo. I suoi confini sono diventati vaghi, il suo orientamento e le sue leggi di funzionamento sempre più “liquidi”, scivolosi e multipolari. Il dato naturale sfugge alla presa, così che la sua fisionomia, cessando di vincolare in modo eloquente, si capovolge in un enigma oggetto di aspra controversia. Sarà un altro risvolto della patologia antiumanistica che si annida nel dramma irrisolto della modernità.



Ma invece di continuare a recriminare contro l’ostinazione recalcitrante dell’uomo contemporaneo, che non riesce più a stare dentro i confini dell’ordine “naturale”, predefinito nel suo perimetro e in sé compiuto, si rivela storicamente molto più fertile il lucido profetismo degli interpreti più acuti del disagio cristiano alle prese con le sfide inedite di un moderno che sfugge a ogni strategia di addomesticamento, anche quella più dolce e moderata della concordia umanistica, riverniciata in termini di filantropia cristianizzata.

È nella riflessione dell’ultimo, e forse poco ascoltato, papa Ratzinger che si trovano, per esempio, le tracce esplicite di una presa di distanza dal linguaggio tipico di una dottrina sociale costruita su basi ancora troppo tradizionali, nella scia di una teologia che, proclamando di ispirarsi a Tommaso, ha perpetuato gli schemi di una tarda scolastica condizionata dalla filosofia naturalistica e sostanzialmente dualistica della prima modernità quattro-cinquecentesca.



Nello scritto di apertura a Liberare la libertà (Cantagalli, 2018), il papa emerito mette apertamente in guardia contro i limiti della dottrina sociale di matrice ottocentesca, che parte dall’idea di un “ordine naturale” concepito come “una totalità completa in sé stessa e che non ha bisogno del vangelo”, producendo il rischio di ridurre ciò che è “propriamente cristiano” (lo spalancamento all’irruzione del “soprannaturale”) a una “sovrastruttura” che si aggiunge dall’esterno, “in ultima analisi superflua, sovrapposta all’umano naturale”. Da qui la critica affilata a ogni pretesa di “costruire un ordine della natura puramente razionale”, affidandosi a forme di presentazione del discorso cristiano in cui la forza trasformatrice dell’incontro con l’evento della grazia viene marginalizzata, espungendo la figura viva di Cristo, il suo annuncio e la realtà stessa di Dio dal cuore dell’esperienza della fede e del suo modo di porsi nel contesto sociale come proposta di vita.

Il “dramma” dell’irresolutezza e il continuo arretramento su posizioni sempre più fragili, indebolite e ripiegate della “disputa sul diritto naturale” mostrano chiaramente, secondo Ratzinger, l’insufficienza della “razionalità metafisica” per individuare e difendere ciò che è il vero bene dell’uomo, per tutti gli uomini. E per aprirsi a modalità nuove di fondazione del valore etico che scaturisce da un “soprannaturale” rimesso a contatto con l’energia tumultuosa delle attese dell’uomo alla ricerca di una risposta piena e definitiva all’assolutezza del suo desiderio, nello stesso contesto a cui ci stiamo riferendo Benedetto XVI invita a ripercorrere in modo intelligente le orme di un altro dei grandi maestri del pensiero cristiano dell’ultimo secolo, cioè Henri de Lubac.

Come annota Ratzinger, già nel suo discusso Surnaturel del 1946 il teologo gesuita, andando controcorrente, aveva mostrato che l’autentica tradizione, riproposta nei suoi termini essenziali da Tommaso, non era stata ancora intaccata dalla svolta moderna con l’invenzione dello stato di “pura natura”, immaginato preesistente e come parallelo a quello dell’ordine creato investito e riorientato dall’intervento del divino nel mondo. Il “fossato” – come lo chiama de Lubac – che la filosofia di una razionalità staccata dal suo cuore religioso introdusse nella realtà organica dell’essere, frazionando l’unitarietà dell’universale vocazione alla comunione con Dio messa in evidenza dalla scuola dei Padri, restò un blocco che l’esegesi approssimativa del tomismo posteriore, dal Gaetano, da Suárez e Molina in poi, finì con l’irrigidire pensando, in questo modo, di presidiare il bastione dei giusti diritti della fede cristiana.

Ma l’inconveniente era quello della separazione, che comprimeva l’apertura all’ordine divino inteso come compimento e fine supremo della natura in quanto tale, isolandola nella sua presunta autonomia. De Lubac denunciava il limite teologico di una visione che depotenziava la portata del senso religioso inscritto nell’ordine strutturale della realtà umana e ribadiva che solo a partire dal punto di vista della creazione, cioè della finalità alla ricongiunzione con il principio da cui tutto discende, si poteva concepire di dare un senso pieno all’esistere dell’uomo e alle forme concrete della sua avventura nel mondo.

Reagendo alla sclerosi di un sistema di pensiero sganciato dal fuoco alimentatore della spiritualità della metanoia cristiana, il padre della “nouvelle théologie” si attirò una lunga serie di critiche pesanti, che lo fecero cadere in discredito e lo costrinsero a riformulare le punte più severe della sua proposta di revisione intellettuale. Dovette svilupparla in modo più disteso e argomentato, con il supporto di una documentazione quanto mai copiosa e inappuntabile. E nell’arco di un ventennio il fautore di un coraggioso “ritorno alle fonti” approdò ai due, veramente notevoli, saggi complementari su Agostinismo e teologia moderna e Il mistero del soprannaturale (1965).

La lezione di queste pagine magistrali attende ancora di essere messa pienamente a frutto, nella stagione in cui si stanno ormai svuotando le speranze troppo a lungo riposte in un’etica, tanto quanto in un ordine del politico e del giuridico fondati su basi solo “naturali”, in una prospettiva che risentiva ancora dell’impostazione dicotomica di chi si credeva in obbligo di riabilitare la “natura” per riequilibrare l’estremismo pessimista e antimondano dei partigiani della “sola fede”, sfigurata nella sua grandezza sovranamente gratuita, capace di perdono e inclinata alla misericordia che tutto restaura e risana.

Tornare ai grandi maestri, sia pure a tanti decenni di distanza, è forse ancora oggi l’antidoto migliore contro ogni scorciatoia semplificatrice che pretenda di ridurre la novità del fermento cristiano a un modello di ingegneria sociale sia pure di ispirazione devota, valido a priori per tutti in modo indifferenziato, invece di puntare sulla capacità di persuasione di una proposta di vita incarnata che indichi esempi di buone pratiche da imitare e lanci al libero confronto dialettico con tutte le altre visioni, ideologie e concezioni che entrano a comporre il tessuto della società plurale dei nostri giorni.

Alla fine, l’anima di ogni autentica progettazione del pensiero non potrà che essere ancora la ricostruzione di una nuova sintesi che rimetta nella loro giusta tensione, cattolicamente parlando, natura e grazia, ordine umano inclusivo e vocazione al divino, libertà, desiderio che si espande dal basso e dono, dall’alto, della salvezza amorosa: senza invasioni reciproche, senza confusioni indebite né, d’altra parte, fratture separatrici che spezzano la circolazione che tiene unito l’intero.

(2 – fine)