A cosa serve leggere? o serve a qualcosa la letteratura? Un’opinione meno controcorrente di quanto si pensi è che leggere può essere, ad esempio, una pratica, un esercizio per la vita di tutti i giorni: si apre il libro, si scorrono le pagine senza sapere se saranno belle o brutte, angosciose o liete, fidandosi semplicemente, una dopo l’altra, dell’autore.



Le risposte alla domanda potrebbero essere innumerevoli, tante quante sono i possibili lettori e le ragioni per le quali un libro possa giungere fra le loro mani. Si può essere attratti da classici orecchiati da qualcuno, o inseguire la scia di una certa idea, un periodo storico, una regione geografica – o trovare all’improvviso, su una bancarella, un libro di cui non si sospettava minimamente l’esistenza, e che potrebbe rivelarsi una vera e propria pietra miliare. Vecchie, preziose edizioni di romanzi epocali, mai più ristampati, a cinque, sei euro: come ad esempio Il sortilegio di Hermann Broch (Rusconi, 1982), iniziato nel 1935 e riscritto più volte, un denso corpo a corpo con l’ascesa nazista e, al contempo, con le questioni ultime della religione e del nostro rapporto con la natura. 



Oppure, più semplicemente, uno stile particolare – magari semplice e piano, al fine di ritrovare un certo tono, una voce ormai andati persi. Per riprendere il filo di un ricordo lontano, come può capitare casualmente con libri in cui, per quanto disparati, ci si riconosce:  per esempio Le ceneri di Angela di Frank McCourt, o Una barca nel bosco di Paola Mastrocola, o Il velocifero di Luigi Santucci, Una questione privata di Beppe FenoglioUn altro mare di Claudio Magris… In fondo si legge per se stessi – sarà forse che, fra quelle pagine si trovano delle storie ben concrete, bambini che danno nomi ad armadi, letti, gatti e specchiere, o che lavorano come postini perché a casa si fa la fame, e nonni garibaldini, personaggi esagerati o familiari, amici persi, ritrovati, immagini di campagne o città conosciute, fatali scollinate all’inseguimento del ricordo di una donna amata.



E poi dimenticarsene. E sarebbe, allora, una rincorsa fine a se stessa dietro al momento, alla sensazione presente, la lettura, una vana consolazione? Perché no? Contro la lettura di soli libri utili e seri (come le biografie dei grandi uomini o i libri di storia), Simon Leys, lo scrittore e sinologo di origine belga, riportava una volta (in un articolo sull’arte come “nostro unico ombrello”) un’osservazione di Carl Jung: “Quando un individuo perde contatto con l’universo mistico, e la sua esistenza si trova così ridotta al solo dominio dei fatti, la sua sanità mentale si trova in grande pericolo”. E aggiungeva: “In altre parole: la gente che non legge romanzi o poesie rischia di schiantarsi contro la muraglia dei fatti o di essere schiacciata dal peso delle realtà. E occorre allora chiamare con urgenza il signor Jung ed i suoi colleghi, per tentare di rimettere insieme i pezzi” (o si può ascoltare, per capirci, la Canzone contro la paura di Brunori Sas).

Cos’è, dunque, che ci trascina con passione quando iniziamo un romanzo o un libro? Nelle meravigliose Lettere ad un giovane poeta, Rilke fa una memorabile osservazione a riguardo: “Le opere d’arte sono di una indicibile solitudine e nulla le può raggiungere poco quanto la critica. Solo l’amore le può abbracciare e tenere ed essere giusto verso di esse”. Parlando proprio di critici letterari, Leys riprendeva provocatoriamente queste riflessioni: “A leggerli, verrebbe da pensare che [quest’ultimi], in fondo, non amino veramente la letteratura. Si direbbe che la lettura non porti loro alcuna felicità; o, se la lettura di un libro dovesse recar loro del piacere, l’accuserebbero immediatamente di frivolezza. Questo perché, ai loro occhi, niente di ciò che è divertente potrebbe essere importante. Ma in questo commettono un grave errore; in realtà, quando una cosa non è divertente, non vuole necessariamente dire che è seria, ma vuole solamente dire che è noiosa”.

Leys consigliò una volta, con un’altra provocazione, il lungo romanzo di un autore pressoché dimenticato (e audacemente portato, per la prima volta, nelle nostre librerie proprio in questi mesi da Edizioni Settecolori), il capolavoro di una vera “canaglia”, I due stendardi di Lucien Rebatet (1951): “Per me, disse Nabokov in un’intervista, un’opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica – cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell’essere dove l’arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma”. 

“In qualche modo, in qualche luogo…”. Questo è il fatto curioso: è un tema così sfuggente perché se qualcosa accade nella letteratura accade in segreto. Vi è un passaggio (l’ultimo) in un altro testo di Leys (una serie di conferenze del 1996, intitolate The View from the Bridge) dove sembra giungere al nocciolo della questione. “Dovremmo dunque – scriveva –arrivare alla conclusione che i libri sono essenzialmente inutili? Suggerirei infatti che sottoscrivessimo questa conclusione, purché rimaniamo consapevoli del fatto che l’inutilità è anche il marchio distintivo di ciò che veramente non ha prezzo”.

Leggere svolge, certo, anche un ruolo civile – come annotava il critico americano Harold Bloom (in Come si legge un libro (e perché), Bur, 2001): “Avrei paura per l’avvenire della democrazia se le persone smettessero di leggere”. Eppure i libri, suggerisce Leys, ci parlano in ultima analisi di questo, “della nostra stessa sopravvivenza come esseri umani” (a tal proposito citava un toccante episodio di Se questo è un uomo, in cui Levi racconta che avrebbe potuto dare “la zuppa di oggi” per ricordarsi alcune terzine della Divina Commedia, che stava cercando di riportare alla memoria). “Dopo tutto – scriveva altrove –, questo tipo di inutilità è il fondamento stesso di ogni valore essenziale della nostra comune umanità”.

Quando finiamo di leggere un romanzo, una raccolta di poesie, in pratica, non ci resta nulla. Ma è questo il fatto: forse era solo un sogno, eppure è la traccia di una persona viva.