“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Il celebre incipit di Anna Karenina di Tolstoj sembra valere anche per i romanzi di Mariapia Veladiano, vicentina, impegnata nella scuola prima come insegnante poi come preside, con alle spalle una solida formazione filosofica e teologica. Con l’autore russo, Veladiano condivide l’assunto che per uno scrittore sia più stimolante narrare di famiglie sfasciate o improbabili, anche perché sono sempre più diffuse nel mondo d’oggi. Dopo l’esordio folgorante con La vita accanto, secondo al Premio Strega nel 2011, da cui pochi mesi fa è stato tratto il film di Marco Tullio Giordana – trasposizione in realtà non memorabile, che accentua vistosamente le atmosfere cupe e morbose di una città di provincia, si direbbe mutuate da Malombra di Fogazzaro – Veladiano ha confermato qualità stilistiche e narrative con altri romanzi, come Il tempo è un dio breveLei (su Maria di Nàzaret), Adesso che sei qui e, recentissimo, Quel che ci  tiene vivi (Guanda, 2023).



Cosa tiene vivi i due protagonisti di questo romanzo, Angeletto e Bianca, reduci da tragedie familiari, accadute in modo diverso, ma da cui sono usciti da “sopravvissuti gaudenti”? Diversissimi i due: lui avvocato specialista in diritto di famiglia, con l’idea di aiutare le famiglie che non funzionano, corpulento e amante della tavola, ateo dichiarato, anche se in ricerca; lei, psicanalista, maggiore di età, esile, raffinata e vegetariana, che afferma decisa, anche se in modo discreto e affabile, la sua fede in Dio. Diversissimi, eppure innamorati e presto sposi, reciprocamente grati del loro incontro imprevedibile.



Affiora nel romanzo soprattutto la storia dolorosa di lui, salvato e accudito da Giuditta, angelo tutelare e avvocato che lo accompagnerà nel corso di tutta la vicenda. I casi professionali dei due coniugi finiscono con l’intrecciarsi, soprattutto quando entra in scena un misterioso bambino, nel quale il giovane avvocato non tarderà a riconoscersi. Salvino è il bambino invisibile, che si nasconde per essere visto. “Io so cosa vuol dire non essere visti”, dice il protagonista, cresciuto in una famiglia in cui i genitori si odiavano, salvato miracolosamente negli “interstizi” della vita. “Ci si salva per caso”, afferma. “Ci si salva perché qualcuno ci vede”, replica Bianca. Così lui è stato salvato da lei: “averla conosciuta mi ha guarito. Dalle paure, dal terrore di non valere niente, dalla sensazione di essere inadeguato per le mie origini”.



Anche Bianca è impegnata in un lavoro di riparazione verso i suoi pazienti: lo fa perché “siamo responsabili di tutto”. “Responsabilità” è parola chiave del romanzo e in questo intravediamo la lezione di Dietrich Bonhoeffer, il teologo luterano che si oppose a Hitler, impiccato a Flossenburg nel 1945; anche lui, come Etty Hillesum e Pavel Florenskij, seppe vedere una luce di speranza negli inferni contemporanei. La parola va intesa in senso etimologico, come impegno a rispondere a qualcuno; così Angeletto e Bianca, nella diversità delle loro convinzioni, stanno di fronte alla realtà che chiede la loro risposta e il loro coinvolgimento, soprattutto nei confronti dei più fragili.

Fa da sfondo all’azione la città di Vicenza, che Mariapia Veladiano ama ma a cui non risparmia le critiche a causa di un ambiente spesso ipocrita e pettegolo; lo fa senza il sarcasmo e la ferocia di un altro figlio della città berica come Vitaliano Trevisan, ma con la grazia leggera e consapevole di chi sa che chi ama una realtà la sa anche criticare. Il resto lo fa la scrittura sorvegliata e attenta di una scrittrice che conosce l’importanza delle parole, che possono uccidere o salvare: “le parole, che meraviglia le parole”.

 

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI