‘L pusé brao d’ì ross ‘l gà sbatìt so pader ’n del poss, ovvero: il più buono dei rossi ha buttato suo padre nel pozzo, ammonisce un adagio dialettale lombardo, diatopicamente declinato; questa è solo una delle tante attestazioni della secolare diffidenza suscitata dai capelli rossi. Pensiamo anche, per spostarci in ambito letterario, all’incipit di una delle novelle più note di Giovanni Verga, Rosso Malpelo (nella raccolta Vita dei Campi, 1880), che pure riflette il pregiudizio popolare: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; e aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo”.



Al fenomeno delle chiome color di fiamma Giorgio Podestà dedica la Breve storia dei capelli rossi (Graphe.it, 2020), breve ma istruttivo libretto che affronta con piglio solo apparentemente leggero il tema del rutilismo, affrontandolo con un occhiale ora da storico ora da antropologo.

Il pregiudizio sui capelli rossi è costantemente attestato in tutte le regioni d’Italia, come testimoniano i copiosi proverbi che l’autore riporta, di cui diamo qui un  breve spaccato: Barba rossa e mal colore, / sotto il ciel non è peggiore; e poi Uomo rosso e cane lanuto, / meglio morto che conosciuto; e non parliamo dei detti dialettali: Rosso de mal pel,/ cento diavoli per cavel (Istria); Di pelo rosso, ‘un è bòno nemmen l’agnello (Toscana); Pei rôs, cativa bestia (Piemonte). E persino in latino era attestato il pregiudizio: Rufus homo raro bonusIn russa pelle, vix est animus sine felleRufum et barbatam a longe saluta.



Se nella Spagna degli anni Trenta le domestiche dalle chiome rosse non erano amate, perché ritenute troppo sensuali, il cinema ha stregato milioni di donne proponendo inarrivabili modelli di seduttrici ramate o dai capelli di fiamma: dalla Rita Hayworth di Gilda (1946), alla più abbacinante maggiorata uscita dalla penna di un disegnatore, Jessica Rabbit, cantante nel night-club “Inchiostro e tempera” e moglie del coniglio Roger nel lungometraggio Disney del 1988. E ricordiamo che persino la seduttrice per eccellenza, Marilyn Monroe, colei che impose definitivamente negli anni Cinquanta il mito del biondo platino (dopo la bellezza anni Trenta di Jean Harlow e Carole Lombard, entrambe dive bionde e morte anzitempo), era in origine, come scopriamo se andiamo a vedere le fotografie giovanili, una sorridente ragazza dai capelli rossi.



Nell’Europa mediterranea, meno dell’un per cento della popolazione ha i capelli rossi, che spesso si accompagnano a una carnagione chiarissima e alle lentiggini, oltre che, come paiono dimostrare alcune ricerche,  a una soglia del dolore più alta. La percentuale aumenta nel Nord Europa, attestandosi oltre il 10 per cento in Irlanda e Scozia.

La rarità del fenomeno, pertanto, lo rende da sempre oggetto di attenzione e curiosità, specialmente dove esso è meno frequente. La vulgata voleva che il rutilismo fosse una eredità dell’Uomo di Neanderthal, con cui noi oggi condividiamo ancora dall’1 al 4 per cento del patrimonio genetico. In realtà, tale convincimento è stato minato alla base da una recente ricerca nella quale è stato esaminato un campione di Dna scozzese: il risultato è che esistono tre varianti del gene del rutilismo, due asiatiche e risalenti a settantamila anni fa e una indoeuropea risalente a trentamila anni fa: ciò testimonierebbe che l’uomo era già detentore di questa caratteristica ben prima di giungere in Europa. Non si tratta pertanto di un’eredità dell’Uomo di Neanderthal, ma della risposta dell’uomo a un clima gelido e inospitale. Sappiamo tutti infatti che la pelle chiara è più soggetta alle scottature se esposta al sole in estate; ma questa sua capacità di trattenere meglio il calore, e di conferire una maggiore resistenza al rischio di congelamento, diventa una grande risorsa in un clima ancora caratterizzato dalle glaciazioni. Ci troveremmo quindi di fronte a espressioni diverse di una medesima mutazione.

Se lasciamo l’inospitale Paleolitico, e veniamo alle origini della Storia, è difficile dire con certezza se gli antichi Egizi avessero i capelli rossi: nell’antico Egitto le persone rosse erano considerate discendenti da Seth e molto inclini alla violenza; ma l’uso di parrucche e tinture rende difficile attribuire senza dubbi le chiome rosse ai Faraoni (il processo stesso della mummificazione potrebbe avere alterato il loro colore). Rossi erano però con certezza i Traci, popolazione bellicosa e fiera che abitava un vasto territorio esteso dai confini della Macedonia verso il Mar Nero e dalle sponde del Danubio sino al Mare Egeo. Essi, guerrieri e fabbri abilissimi, sono ricordati come detentori di capelli rossi e occhi chiari (un particolare che ha sempre un po’ intimidito i Greci e i Romani) già da Senofane, filosofo presocratico che componeva le sue opere in poesia: “I mortali si immaginano che gli dèi sian nati/ e che abbian vesti, voce e figura come loro./ (…) Gli Etiopi dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e sono neri, / I Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi”.

Anche gli Sciti, che vivevano in aree limitrofe, avevano colori analoghi, e così anche la popolazione dei Budini, a detta di Erodoto. Tito Livio parla dei Galli come individui feroci, alti e dalle chiome fulve, notizia confermata anche da Diodoro Siculo; e che dire del temibile ritratto dei Germani lasciatoci da Tacito? Al rosso era sempre associata la nozione di una diversità minacciosa, tanto che Svetonio, nella Vita di Caligola (4, 47), afferma che questo imperatore costrinse i Germani sconfitti a tingersi di rosso, per sembrare, una volta condotti a Roma, più scenografici e convincenti: insomma, il rosso era parte integrante del physique du rôle del barbaro violento e minaccioso.

Ma non mancano nemmeno casi di sovrani rossi: Alessandro Magno, che doveva avere ereditato il gene del rutilismo dalla madre Olimpiade, delle stirpe regale dell’Epiro, lo occultava tingendosi le chiome di biondo con una miscela di potassio appositamente creata per lui; invece il re Davide fa la sua prima apparizione nell’Antico Testamento (1Samuele 16, 12) come un bambino, il più piccolo dei figli di Iesse, “fulvo, con begli occhi e bello di aspetto”. E secondo la Lettera di Lentulo, un apocrifo del Nuovo Testamento, anche Gesù avrebbe avuto i capelli rossi.

Il mito e il fascino dei capelli rossi sono così giunti attraverso i secoli sino ai giorni nostri: e se i genetisti ci ammoniscono circa il rischio che, entro cinquanta o cento anni il gene si disperda e scompaia, non tramonta, ma anzi aumenta il numero di donne che, castane, brune o bionde, soggiaciono al fascino del rosso: infatti, ad onta del pregiudizio popolare, questo colore, nelle sue mille sfumature, sta scalzando il biondo nelle vendite delle tinte per capelli, il che testimonia la seduzione che emana dalle chiome rosse, color mogano o ramate che siano.

Lo testimoniò già Cyrano de Bergerac, il letterato e spadaccino francese che ispirò la pièce di Rostand, nella sua splendida lettera Per una donna fulva, che ci piace immaginare dedicata alla cugina Maddalena, detta appunto Rossana dal colore delle chiome (cfr. Naso e Parnaso. Lettere satiriche, Liber, Milano 1993): “In verità, io non posso mai guardare una parrucca bionda senza pensare a un ciuffo di stoppa mal pettinata (…) Per conto mio, mia bella signora, io non desidero se non che, continuando a portare a spasso la mia libertà entro quei piccoli labirinti che vi servono da capelli, io finisca che per smarrircela; e tutto ciò che io spero è di non ritrovarla mai dopo averla perduta”. Tanto può lo charme delle chiome rosse.