Del libro di Paolo Valesio, Il Testimone e l’Idiota, un cospicuo volume di poesia e di poema teatrale, edito da La Nave di Teseo (2022), potrebbe ingannare la pervasiva presenza biografica (luoghi, date, dediche e continui riferimenti alla vita dell’io che scrive in prima persona sempre). Ingannare non già perché non si tratti di un libro “personalissimo” ai limiti, anzi oltre, della mancanza di pudore, ma perché il titolo, costruito sulla presentazione di due figure-personaggio, il Testimone e l’Idiota, due volti della stessa persona o meglio due sguardi e voci, avvisa subito di considerare la faccenda non appena come diario trasfigurato, ma come vera e propria messa in scena.
E la messa in scena di Valesio (come avviene per i Sonnets di Shakespeare) è volta a creare una tensione entro cui possono abitare le continue riflessioni “automistificate” dall’autore. La voce del poeta infatti appare sabotatrice continua di ogni idea amorosa, culturale, teologica, esistenziale affiori nel profluvio di riflessioni che procedono con andamento di poesia prosastica (qualcuno ha parlato di influsso eliotiano, ma a livello di materiali più che di ritmo). Valesio infatti sa che la poesia è una lingua di sabotaggio, o meglio, abita il limite continuo tra intesa e fraintendimento.
Una poesia continuamente ragionativa come quella di Valesio, poco incline al lirico o alla metafora, se pur capace di momenti di puro incanto, mette alla prova se stessa, in un continuo ridubitare di ogni asserto, di ogni pensiero, di ogni verità affiorante nel dialogo.
Ma è quel genere di dubbio che è teso alla verità, non a negarla a priori, come il dubbio contemporaneo, maschera vezzosa del nichilismo. Qui si sovrappongono il Testimone e l’Idiota, che come si dice in una citazione di Simone Weil, è amante della verità. L’Idiota e il Testimone non sono figure opposte, ma egualmente personaggi del continuo fraintendimento delle voci che vengono dall’esperienza, dagli incontri, dai momenti di preghiera, persino dalla Voce stessa, nonché dalla voce della Fiamminga, enigmatico e bellissimo personaggio della seconda parte. Un continuo fraintendimento o scostamento che produce nel lettore paziente una sorta di cattura. Come se si assistesse a una danza di api in un alveare, api di parole, laboriosissime (e provenienti da un lavoro infinito dell’intellettuale Valesio intorno alla letteratura, alla mistica e alla filosofia) il cui esito è un libro-alveare di un miele amaro e dolce contemporaneamente.
Molte sono le pagine sottolineate, le illuminazioni, gli aromi rilasciati dal poeta riflessivo in questa sua ruminazione continua e spudorata. Il continuo dialogo (forma poco usata nella poesia recente, se non azzardata da grandi autori come Sereni, Luzi) e che Valesio estremizza e teatralizza quasi per necessità di oggettivare ciò che lo tormenta e illumina, trascina il lettore in una strana curiosità, intellettuale ed esistenziale insieme a riguardo dei tanti temi toccati, dall’invadente problema della morte e del tempo, a quello della sensatezza della preghiera, Dio e la croce, la teologia negativa, al senso dell’amore e degli amori, in una rappresentazione della vita che, appunto, sfugge a una rappresentazione statica, lirica o elegiaca che sia, per darsi nella ruminazione dialogica, nel continuo fraintendimento per tensione conoscitiva.
In altro modo, infatti, la vita non si dà nel teatro della nostra coscienza. E Valesio ha lavorato duro, e con la sfrontatezza dei bambini, per tirarlo fuori e offrirlo, in un gesto che è al tempo stesso cordiale ed estremo. Facendo i conti con sé, certo, fino alle radici e fino alle estreme propaggini del teatro della sua esistenza, perché il lettore potesse fare i conti con il suo. Riavviando, dunque, la forma del dialogo oltre le pagine stesse del libro.
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