Ci sono molte buone ragioni per leggere La Russia in quattro criminali di Federico Varese (Einaudi, 2022). La prima è che è illuminante: accende magistralmente la luce sulle intricate e oscure vicende della Russia dai tempi di Gorbacev a quelli di oggi. E lo fa – da studioso competente e raffinato – osservando fatti eclatanti eppure raramente considerati essenziali. Il teorema di Varese è lapidario: dall’accasciarsi del potere sovietico ad oggi, lo Stato russo convive (e spesso banchetta) con il sistema criminale semplicemente perché ne ha bisogno.
La domanda che anima tutto il percorso è “come è possibile che la Russia sia passata dal caos politico ed economico degli anni Novanta, dove si fronteggiavano mafie cecene e slave, i funzionari del Kgb e i veterani dell’Afghanistan interferivano nelle imprese dei giovani capitalisti e lo Stato era un colabrodo, a una dittatura che ricorda moltissimo l’Unione Sovietica, avendo sostituito l’idea marxista-leninista con quella neoimperiale e nazionalista di Vladimir Putin? (…) Io ho scelto di seguire la vita e le tribolazioni di quattro personaggi che esemplificano momenti diversi di questa trasformazione”.
È avvincente scoprire come la criminalità che si è rapidamente strutturata nel rapido decadere dell’impalcatura sovietica sia diventata la stampella necessaria allo Stato per concedersi una continuità di esistenza. Ognuna delle quattro storie è una perla che va scoperta, di cui do una minuscola anticipazione: quella del carcerato Sergei Savel’ev. Raccomando di non andare su Youtube a vedere cosa si trova: ne andrà compromessa la notte se fatto di sera perché le immagini che Sergei ha miracolosamente trafugato documentano sevizie, stupri di massa e le indescrivibili torture che ordinariamente si producono all’interno delle carceri russe. Non qualche decina, né centinaia: sono migliaia i video originali che Sergei – a rischio della vita – è riuscito a trafugare da quell’inferno in cui era recluso, video che descrivono un’orribile normalità, giustificata e legittimata da un sistema dove si è sbriciolata ogni ombra di umanità.
L’alleanza incestuosa tra Stato e criminalità iper organizzata è la normalità della Russia degli ultimi trent’anni. E la nostra pseudo-civiltà europea e atlantica ha finto di non sapere e non vedere. L’Occidente non è però uno spettatore innocuo: “ha creduto in El’cin e nel suo circolo di uomini e donne senza scrupoli, permettendo loro di nascondere i denari nelle banche occidentali, senza accorgersi che erano il preludio di Putin. Oggi ne paghiamo le conseguenze”. Come – ahimè troppe volte – ci ha gridato in faccia Anna Politkovskaja descrivendo gli orrori perpetrati dai russi in Cecenia mentre Clinton, l’adulato capitano del “nostro” Occidente, faceva pubblicamente i complimenti al suo omologo russo per il lavoro che stava facendo a Grozny (città ridotta in macerie e che nel 2003 le Nazioni Unite definirono “la città più distrutta al mondo”).
La prima responsabilità di noi europei è quella – nella complessità di questo tempo tragico – di accorgerci di quello che succede, anche se spesso sembra, come ricordava tristemente Del Noce, che il nostro non sia più un tempo dell’attenzione (categoria decisiva per Simon Weil) ma del nichilismo gaio.
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