“È per tuo decreto / che nasce in noi la volontà di conoscere / e ogni rovente fame di infinito”. Sono alcuni dei più intensi versi di Non finirò di scrivere sul mare (Mondadori), il nuovo poema di Giuseppe Conte (Imperia, 1945), libro alto e coraggioso in cui il poeta fa confluire tutta la sua ricerca interiore, iniziata con bellissimo L’oceano e il ragazzo (1983) che Calvino salutò come una raccolta decisiva per il rinnovamento della poesia italiana.



Per Conte, il mare è tutto: padre, madre, fratello, e ancora, specchio di inquietudini, richiamo per l’assoluto, scrigno di memorie. È rischioso cantare il mare, dati i numerosi e così illustri precedenti. Tra i vertici del secolo scorso, il “Finale” di Ungaretti nella Terra promessa: “Più non muggisce, non sussurra il mare, / il mare. // Senza i sogni, incolore campo è il mare, / il mare. // Fa pietà anche il mare, / il mare”. Oppure Amers del dimenticato Premio Nobel Saint John Perse, autore raffinato e così inafferrabile: “Il Mare, immenso e verde come un’alba a oriente degli uomini, il Mare in festa sulle sue scalee come un’ode di pietra: veglia e festa alle nostre frontiere, mùrmure e celebrazione ad altezza d’uomini – il Mare nostra veglia, come una promulgazione divina…” (traduzione di Romeo Lucchese).



Conte vince la sfida consegnandoci una delle sue raccolte più compatte e incisive. Ritornano i temi e le modalità che ne hanno fatto un unicum nel nostro paesaggio letterario (e che tante volte gli hanno consegnato la patente di “escluso” dalla linea dominante): l’amore per la mitologia (da rileggere il suo Terre del mito), l’aperta dicibilità dei suoi versi (è un poeta da proporre nelle scuole), la passione per la storia, che ha alimentato anche il cantiere del romanziere (l’ultima fatica è l’avventura di Guglielmo il Malo, comandante genovese nella Prima crociata, la cui vicenda è narrata nei Senza cuore, uscito per Giunti).



Ho sempre amato i poeti che scrivono sotto scacco. Come l’ultimo Carver, minato dal tumore, o Ezra Pound rinchiuso nella gabbia. O Péguy che sperava contro ogni umana speranza. E così fa Conte: procedendo controcorrente nel nostro tempo caotico che non vuole concedere spazio alla poesia e al silenzioso raccoglimento che la genera.

Non finirò di scrivere sul mare è un poema contemplativo: si nutre della natura (Shelley e i grandi romantici inglesi o l’ispiratissima linea ligure del 900 (Sbarbaro e il Montale degli Ossi di seppia), ma è anche strettamente intrecciato alla propria vicenda biografica.

Tra i testi più toccanti, mi piace riportare quello per la madre (da accostare agli splendidi “Lari” foscoliani dedicati al padre nei Canti d’Oriente e d’Occidente (1997):

In origine, sei stata tu il mio mare, madre
sei tu che io ho abitato, il tuo tepore
senza onde, senza il minimo rumore,
fuori dalla storia, dal frusciare dell’aria
tutto dentro di te, dentro il tuo amore.

Sei tu il mare di latte che mi ha nutrito
dove ho imparato a nuotare e a crescere,
il mare che mi ha mostrato l’orizzonte
e la riva, l’isola e l’infinito.
E poi ti ho lasciata, sono partito.

Ma ora sono qui, eternamente figlio
a chiederti, come solo a una madre si chiede,
di ascoltare, esaudire la mia preghiera.
Anche se pesa su di te la sera,
se sopporti dolore e umiliazione

nella tua casa ormai la tua prigione
se il male alla schiena ti piega
e il ginocchio operato cede
se pensi triste che non ho un erede
che la tua vita non è stata come

tu la volevi, io ti prego, in nome
di quel mare che sei stata all’inizio
per me, tu che mi hai portato nella realtà,
non volertene andare, sorridi ancora.
Nun andàtène, ma’.

(Come ricorda l’autore: nel dialetto ligure ma’ è la forma esclamativa di “madre!”, ma significa anche “mare” e “male”).

“Non c’è un’Itaca nella mia vita. / Non c’è un’isola a cui tornare” scrive Conte nell’ultima sezione del libro, per poi autocorreggersi aggiungendo “per me l’unica meta è stata vivere / – e amare sempre, e scrivere”.

Ed è proprio questa l’Itaca di Conte e di ogni poeta, l’isola della verità e della bellezza che ogni giorno ci richiama con lacerante nostalgia.