In un discorso tenuto il 24 ottobre di quest’anno, James Jeffer, direttore esecutivo del Knight Institute per il Primo Emendamento presso l’Università Columbia di New York, ha dichiarato fra l’altro che “Il valore di un sistema di libertà di parola dev’essere misurato non soltanto in base alla sua efficacia nel promuovere l’autonomia dell’individuo […] ma anche alla sua efficacia nell’aiutarci a scoprire la verità, comprenderci l’un l’altro, risolvere dispute civiche, e governare noi stessi”. È certamente una descrizione condivisibile di elementi fondamentali, eppure si sente che qualcosa manca. E l’impressione resta anche quando, nel discorso appena citato, si dice che “La libertà di parola è un contenitore da riempire, non un piano di azione”.



E se invece noi pensassimo la libertà d’espressione non come un contenitore da riempire, e non come un piano d’azione, e nemmeno come un problema puramente pragmatico di “efficacia”; ma piuttosto come un’utopia necessaria, e una complessa questione etica dagli aspetti paradossali?

Stiamo parlando infatti di un tipo di libertà che non è pienamente realizzato in nessun luogo al mondo: è un orizzonte verso il quale continuiamo a tendere. E ciò dovrebbe bastare per sviluppare in noi un atteggiamento di umiltà, e di rispetto per l’enormità di questo compito. Inoltre, la libertà d’espressione dovrebbe essere coltivata, non a dispetto del fatto che essa porta spesso a conseguenze imprevedibili e problematiche, ma proprio perché essa conduce a tali conseguenze  (l’etica, appunto, è qualcosa di essenzialmente paradossale).



Quando pensiamo alla libertà d’espressione, la vediamo predominantemente (sempre?) nella prospettiva di un soggetto che enuncia certe affermazioni, siano esse verbali o trasmesse attraverso altri media, compreso il linguaggio del corpo (ecco perché è meglio parlare di libertà di “espressione” piuttosto che di libertà di “parola”). In sintesi: c’è un soggetto il quale si presenta come autore di un discorso significativo che richiede un uditorio; e si sente limitato o perfino minacciato da qualche altro soggetto che vuole oscurare o comunque diminuire la sua espressione. Questa è una prospettiva fondamentale che dev’essere coltivata e, se necessario, difesa. Ovvio, no? Così ovvio, in effetti, che si può restare insensibili a un certo elemento narcisistico, in tutto ciò. Ma c’è un’altra prospettiva, che non contraddice bensì integra quella appena descritta: la prospettiva dell’ascoltatore.



L’“altro” che dovremmo essere sempre disposti ad ascoltare, se vogliamo che la nostra esperienza di libertà significhi veramente qualcosa, è il radicalmente altro: in un senso non metafisico ma semplice e quotidiano. È l’altro con cui non ci troviamo d’accordo; l’altro che non ci piace, e che tendiamo a non rispettare e a volte addirittura a odiare; l’altro, dunque, non soltanto come il vittimizzato che possiamo esser tentati di considerare con una certa degnazione, ma anche l’altro che potrebbe rivelarsi come avversario forte e pericoloso.

Soltanto quando accettiamo pienamente il diritto a essere ovvero le ragioni d’essere di questo “odiato” altro (odiato da chi?), al di là del problema se siamo o no d’accordo con lui/lei; soltanto allora possiamo veramente comprendere la necessità di lasciare che altri siano liberi di esprimersi, e possiamo sentirci veramente autorizzati a sviluppare la nostra propria libertà d’espressione.

Che cosa è in giuoco, in tutto questo? Nientemeno che la  completa accoglienza di un’intuizione tanto difficile quanto fondamentale: che, cioè, esseri umani diversi da noi effettivamente esistono, nel senso pieno di questo termine; è quella che potremmo chiamare l’evidenza dell’esistenza  (è terribilmente facile non vedere ciò che è evidente, ciò che è “nascosto in piena vista”, per dirla all’inglese; e potremmo chiamare questa non-percezione “sindrome della Lettera rubata”, con riferimento al famoso racconto di Edgar Allan Poe).

Ricordiamo un motto dalle lontane origini: Amicus Plato, sed magis amica veritas, cioè: “Platone è mio amico, ma la verità mi è ancora più amica”. Ebbene, con tutto il rispetto per la saggezza antica, ma tenendo presenti le varie esasperazioni dogmatiche dell’idea di verità in tempi moderni, sarebbe preferibile rovesciare questo detto, e dichiarare: Amica veritas, sed magis amicus Plato, ovvero: “La verità è mia amica, ma Platone mi è ancora più amico”; dove “Platone” sta per ognuno che entri con me in un incontro o scambio. L’inflessibile ricerca di una verità assoluta rischia di divenire presto o tardi nemica della libertà di espressione; libertà il cui significato più profondo non ha a che fare con un’asserzione potenzialmente narcisistica, ma con il riconoscimento e l’accoglienza della comune esistenza umana.