Il dizionario di una lingua rivela spesso come le culture collocano al proprio interno determinate attività, che rilievo danno loro e a chi le esercita. Ad esempio, l’importanza del tradurre nel mondo romano è ben rappresentata dalla terminologia usata, come ha mostrato Maurizio Bettini in Vertere (Einaudi, 2012), libro pubblicato più di dieci anni fa ma ancora oggi ricco di stimoli e suggerimenti.
Il latino, in questo campo, ha infatti almeno undici verbi per “tradurre”: aemulari, exprimere, imitari, interpretari, reddere, tradere, traducere, transcribere, transferre, transponere e vertere. Una terminologia costruita quasi sempre con dei prefissi: inter- ex-, red-, trans- cum-, che modificano i termini nel senso di un movimento da un luogo, per un luogo o attraverso un luogo. Mi piace l’idea del movimento perché è effettivamente quello che fa la traduzione: il movimento del senso verso direzioni non necessariamente determinate.
Qualche veloce osservazione sui vari termini ci offre delle interessanti curiosità circa il modo in cui i latini vedevano il tradurre. Ad esempio in interpretari troviamo la radice per o pre nel senso di “trafficare”, scambiare, che ritroviamo nel greco pèrnemi (vendere), priasthai (comprare), piprasko (vendere): si tratta della stessa radice del latino pretium, un significato “commerciale” del termine che implica il passaggio di qualcosa, che siano merci o parole.
Exprimere significa “premere”, “cavare fuori”, nel senso di produrre un’immagine da uno stampo “premendola via”, oppure quello di lasciare un segno imprimendo il sigillo sulla cera. Un calco dunque che però è allo stesso tempo una sorta di negativo dell’originale, come se questo fosse visto da un’altra prospettiva e mostrasse una faccia diversa. Reddere è “restituire”, ma anche “ricambiare”, “contraccambiare”, “ripagare”; in questo senso porta con sé l’idea che la traduzione sia qualcosa che si ha in cambio di qualcosa d’altro che è il testo straniero.
Un discorso diverso riguarda il verbo vertere. Plauto lo usa per descrivere l’atto di adattare gli originali greci alla nuova commedia romana. All’apertura dell’Asinaria nel vv.10-12, Plauto commenta la sua fonte scrivendo: “In greco questa commedia si intitola Onagós, l’ha scritta Demofilo e Macco l’ha tradotta in latino (vortit barbare). Vorrebbe tradurla (volt) Asinaria se vi va bene”. La traduzione è per noi legata alla scrittura, in quanto viene applicata a un testo che dovrà essere letto, quasi sempre in silenzio. Il vertere dei Romani avviene invece in una situazione radicalmente diversa, altra dalla lettura solitaria e silenziosa. Il “vortit barbare” di Plauto non è rivolto a dei lettori ma al teatro, una parola che va messa in scena con un pubblico che ascolta, una parola recitata da un attore che la modulerà secondo la sua arte.
Una volta conclusasi la dichiarazione dell’autore nel prologo, ciò che gli spettatori hanno non è un testo scritto che probabilmente solo alcuni sarebbero in grado di leggere, ma personaggi che si sono trasformati, da greci sono diventati romani. L’atto del vertere nasce dunque nell’oralità e nella rappresentazione. La traduzione è in questo caso qualcosa di concreto, cambiano le parole ma cambiano anche i personaggi, cambia la realtà di riferimento.
C’è però un altro aspetto che può aiutare a illuminare ulteriormente il senso di vertere. Molto spesso, infatti, il cambiamento dovuto al vertere implica l’intervento di una forza magica, soprannaturale, capace di operare una trasformazione. Ad esempio quando Mercurio, nell’Amphitruo di Plauto, descrive la facilità con cui Giove muta d’aspetto per assumere l’identità di Anfitrione, dice: “in Amphitruonis vertit sese imaginem”. In maniera simile il re Mida delle Metamorfosi dice: “Fai che tutto quello che tocco con il mio corpo si converta (vertatur) in fulvo oro”; così anche la vecchia strega Dipsas trasformata si aggira volando fra le tenebre (“nocturnas versam volitare per umbras”).
La persona o la cosa soggetta al vertere subisce una trasformazione per cui perde la propria forma esterna per assumerne un’altra. Si può dunque pensare che colui che vertit in latino un testo composto in un’altra lingua mutandone radicalmente la forma, ne fa qualcosa che risulta totalmente altro rispetto a ciò che era prima.
Tradurre allora diventa un’esperienza di trasformazione profonda, di metamorfosi che crea necessariamente qualcosa di nuovo. Un nuovo modo di guardare le cose. Una nuova letteratura, come accade per quella latina nata appunto dalla traduzione e nella traduzione.
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