L’esordio poetico di Livio Rabboni (Piacenza, 1974) per i tipi di LietoColle avviene sotto il segno di Paul Celan, i cui versi ritornano in apertura alle varie sezioni di Carne della fine come a delineare un percorso. Del simbolismo e della scrittura “franta” e “occulta” del poeta della Bucovina, riemersa dalle macerie della Seconda guerra mondiale, Rabboni recupera in primis il grande tema della “ferita”, operante a livello esistenziale e linguistico.
Si tratta infatti, come per Celan (che in Dialoghi con cortecce cantava la propria volontà di essere “così / nudi e vicini alla lama”) di fare i conti con quella posizione vertiginosa della parola poetica che conduce in territori percorsi da faglie e fenditure, sospesi su crinali e abissi. La frattura a cui va incontro il soggetto è declinata nel libro in numerosi campi semantici: il cielo “visto senza slogature, all’una pomeridiana”, in un ritratto invernale “la punta scavata di ghiaccio e neve / impressa come una traccia / una ferita dell’ombrello sul marciapiede”, la “calma falcidiata delle nubi”, la “ferocia friabile” e le “contratture dell’acqua”, il “sole mutilato”, la lenta “frana dei ronchi nei polmoni” in un padiglione ospedaliero e ancora il “taglio vivo dell’acqua”, la “ferita di piombo” e infine la “pietà del muschio indifesa” che “ferisce” la “vita inesplosa del ghiaccio”.
Un libro alto e compatto in cui, in una lingua e uno stile sorvegliati ma ricchi di tensioni e inarcature, siamo condotti attraverso la geografia personale dell’autore: le “acacie in direzione di Milano” o quelle di via Mazzini a Piacenza, le alture di Genova, il cielo di Vienna fino a toccare l’estremo, stupefacente Giappone con la sua “forma risolta dell’impermanenza”.
Rabboni ci accompagna a contemplare, attraverso la finitezza dei nostri giorni, un dolore vissuto e percepito nella “carne” dell’uomo, nel mondo e nei suoi elementi (natura, oggetti, corpi): “Ha cominciato a piegare la schiena mio padre / come la felce, come i salici ostinati al destino / del vento”. Spes contra spem, in un percorso di instancabile ricerca (Quaerendo invenietis si intitola appunto, tra esortazione evangelica e allusione al Bach dell’Offerta musicale, uno dei testi conclusivi della raccolta) anche la “ferita” può trasformarsi in crepa attraverso cui lasciare passare la luce: “un varco di frontiera – aperto a mezzogiorno – / separa il finito dal corpo del male”.
Ed è solo nella prospettiva di una “fede bambina” ritornata “nelle folate del cuore” che le parole ferite di Rabboni sembrano ritrovare il loro respiro cristiano alla ricerca di una speranza (difficile e agonica, in perenne tensione: “il verde più vivo / intorno al legno degli scomparsi”) che le sollevi dalla tragicità di un “destino sazio e chiuso”. Così, come in una anastasis bizantina, la discesa nelle buie profondità degli abissi è anticipo di quella luce che scardina il buio, sottraendo terreno alla notte: “un corridoio di luce stende l’eterna sutura / che strappa ferite all’egemonia della notte”. E le “promesse” a lungo attese e inseguite trovano il loro compimento in una possibilità di riscatto e rinascita, nella “feritoia perfetta / il mattino di Pasqua” da cui filtra quella luce capace di investire anche le “parole crollate” della nostra umana lingua. Donandole la forza, la grazia del canto:
Si specchia la tregua indivisa dell’acqua
negli occhi calmi, saziati del gufo
l’istante sigillato del mare
balbetta i suoi sogni sulla spiaggia:
un soffio per ascoltare,
un canto per tacere. un canto per tacere.
La fronte dei gabbiani
trattiene il cielo che ci separa:
la mia sorgente di la mia sorgente di quiete
il tuo sentiero di gioia