In poesia sono rari gli esordi folgoranti, alla Rimbaud del Battello ebbro (scritto nel 1871 quando aveva diciassette anni), o, venendo al secondo Novecento, alle Somiglianze di Milo De Angelis, pubblicato nel 1976 da Guanda quando l’autore era venticinquenne. 

La poesia richiede vocazione e illuminazione, certo, ma soprattutto dedizione e labor limae. Ed è quanto accade con A perdersi, splendida e toccante raccolta d’esordio di Lorenzo Rapisarda. Un viaggio portato a termine dopo lunga gestazione che mette a fuoco i temi della grande poesia: l’amore, il dolore, la nostalgia di quell’Eden perduto che a brevi intermittenze riverbera nel nostro quotidiano. 



Cominciamo dal tema dell’amore. Trova compimento nel poemetto centrale, che dà il titolo all’intera opera: è il forte architrave della silloge, un inno alla fedeltà coniugale, alla donna “che ha reso respiro l’affanno”. 

Nella decisiva sezione “A perdersi” è come se il poeta avesse sognato l’incontro tra l’Amato e l’Amata nel Cantico dei cantici, o avesse il privilegio di riscoprire l’entusiasmo di Adamo nel vedere Eva per la prima volta nel giardino del Paradiso terrestre. Rapisarda diviene lo scriba di un amore fedele che non conosce usura. C’è l’asciutta tenerezza dell’ultimo Carver, la gratitudine per la Donna-Luce della Bufera montaliana, e la convinzione che l’amore sia una scommessa contro la morte, come ricordava Gabriel Marcel. Ecco un assaggio dei versi di Rapisarda:



“…Ora
vederti è come la prima volta.
Nel silenzio del mio sguardo avanzi,
cerva amabile vestita di bianco.
Vieni a me, attesa di noi. Accadi ancora.
La mano destra, due anelli, tre sì.
Sigillo. Fermo immagine di storia.
Nella gioia e nel dolore. Consorte.
Meraviglia che splende nei tuoi occhi
consumiamo nel fuoco la promessa…”.

È un amore con i colori della geografia che lo ha generato: la brace delle colate laviche dell’Etna e il nero lucente dell’ossidiana. 

Ecco le “felici ossessioni” di Rapisarda: lo sguardo sognante, la spina sempre pulsante del dolore, la speranza della resurrezione che non attenua l’incognita sul senso ultimo delle cose perché “il mistero resta sempre mistero”.



La scrittura di Rapisarda viene da lontano: da molta vita, da molte croci, verrebbe da dire, e da molte letture. Ci sono grandi maestri nel suo cammino, soprattutto del Novecento. Alcuni attacchi ricordano Marino Moretti (“Piove. È mercoledì. Sono a Cesena”), le ferite della nostalgia riportano alle Occasioni del già ricordato Montale, ma forse la stella fissa a cui guarda Rapisarda è quella di Mario Luzi, autore spesso trascurato dalla critica più recente. 

Dall’autore del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini Rapisarda eredita la predilezione alla “conoscenza per ardore” e il fuoco diviene così la dominante del libro. Di sicuro, il cuore di Rapisarda ha una lenta confidenza con il silenzio, altro protagonista di A perdersi. È il silenzio dell’alba dell’amore (p. 13), dell’amore corrisposto sotto il cielo estivo (p. 15), del sogno che non si vorrebbe mai spezzato (p. 19), è la cifra del coraggio muliebre (p. 22), è il congedo a un amico strappato via anzitempo (p. 50), è la goccia di una flebo che non serve più (p. 53), è lo strazio di un loculo al cimitero (p. 55). 

Rapisarda ha una spiccata tensione lirica (basterebbe ricordare la nitidezza del verso: “Sboccia il cielo nel roseto del vespro”), ma la forza della sua poesia è ben agganciata alla realtà, del resto nel suo canzoniere c’è spazio per i piccioni che si cibano tra le pozzanghere, per la maglia numero 7 della Juve o per un paio di Sneakers sulla sabbia.

Ma, in fondo, è questo il segreto della poesia, che è uno zoom ad altissima definizione per interpretare il mondo, dagli astri del firmamento alle scarpe abbandonate in riva al mare di Sicilia (“che ti ricorda chi sei,/ da dove vieni, e cosa desideri”).

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