All’indomani della morte di Benedetto XVI si sono succeduti, nei media e nei blog di orientamento progressista, giudizi severi sulla teologia e sul magistero di Ratzinger. Giudizi tesi a marcare la profonda differenza tra i due papi, tra Benedetto e Francesco. Come se il primo rappresentasse il fronte della reazione ecclesiale e il secondo quello del progresso. Si tratta di una visione semplificata che trascura quasi per intero la ricca produzione teologica ratzingeriana e sottovaluta momenti essenziali del suo magistero.
Contro queste semplificazioni reagivano gli articoli raccolti nel mio volume del 2015 Senza legami. Fede e politica nel mondo liquido. Gli anni di Benedetto XVI. Certo i due libri-intervista di mons. Georg Gänswein (Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI) e quello del cardinale Gerhard Müller (In buona fede. La religione nel XXI secolo) non aiutano a chiarire il quadro. Anzi rafforzano, inevitabilmente, l’immagine del fronte “ratzingeriano” ostile all’attuale pontificato e assestato su posizioni chiaramente conservatrici. La diversità di stili e di sensibilità tra i due pontefici assume la forma di una dialettica incomponibile tra due immagini della Chiesa; una dialettica, va detto, che blocca l’autocoscienza ecclesiale e le impedisce di concentrarsi su ciò che è essenziale.
Per superare lo stallo occorre decostruire non solo l’immagine del Ratzinger di destra, cara ai progressisti, ma anche quella del Ratzinger, sempre di destra, cara ai tradizionalisti. Ci ha provato Riccardo Saccenti, docente di storia della filosofia medievale nell’Università di Bergamo, in un articolo del 5 gennaio ospitato nel blog di Andrea Grillo. Nel suo saggio Saccenti traccia una sorta di evoluzione interna al pensiero ratzingeriano, dal progressismo ad una posizione più conservatrice. Comunque sia Saccenti dimostra come la questione Ratzinger sia complessa e non possa essere risolta a colpi di slogan.
A dimostrare che il pensiero di Benedetto non possa essere consegnato nelle mani dei “ratzingeriani”, ovvero di coloro che continuano ad utilizzare il grande teologo per contestare l’intera Chiesa postconciliare, vale, innanzitutto, la critica dei tradizionalisti i quali non hanno mai perdonato a Ratzinger il suo “progressismo”. Ne è riprova la recente critica che Roberto de Mattei nel suo articolo Il libro-testamento di Benedetto XVI. Una conferma, edito il 25 gennaio su Corrispondenza Romana. De Mattei si è confermato, in questi anni, come uno dei più strenui critici di papa Francesco e della Chiesa del Concilio. Ora questa critica mostra di non risparmiare nemmeno Ratzinger-Benedetto XVI. Scrive de Mattei:
“Un alone di ambiguità avvolge soprattutto la figura di Benedetto XVI, presentato come l’ideale punto di riferimento di un fronte conservatore che si opporrebbe alla deriva dottrinale dei vescovi progressisti tedeschi. Eppure, è noto che da quello stesso ambiente Benedetto proviene. Come e quando avvenne la sua ‘conversione’? In un’intervista del 1993, l’allora prefetto della Congregazione della Fede, Joseph Ratzinger disse: ‘Non vedo interruzione, negli anni, delle mie vedute di teologo’ (Richard N. Ostling, John Moody e Nomi Morris, “Keeper of the Straight and Narrow” in Time, 6 dicembre 1993). Non c’è capovolgimento di posizioni tra il dottorando del 1955, accusato di ‘pericoloso modernismo’ dal suo professore Michael Schmaus e l’audace consulente teologico del cardinal Josef Frings al Concilio Vaticano II (1962-1965); tra il cofondatore di Communio (1972) e il professore all’Università di Tubinga e Ratisbona (1966-1977); tra l’arcivescovo di Monaco di Baviera (1977-1981) e il prefetto della Congregazione della Fede (1981-2005); tra il 265esimo Papa della Chiesa cattolica (2005-2013) e il ‘Papa emerito’ che ha continuato a lavorare fino alla morte, nel monastero di Mater Ecclesiae (2013-2022). La sua visione teologica si arricchisce e si perfeziona, ma il filo conduttore rimane il tentativo di trovare una via intermedia tra le posizioni della teologia tradizionale, a cui non ha mai aderito, e quelle del modernismo radicale, da cui ha sempre preso le distanze. Ciò che nella lunga vita di Benedetto è cambiato non sono le idee, ma il giudizio sulla situazione della Chiesa, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II e la Rivoluzione del Sessantotto”.
Il Ratzinger “conservatore” non avrebbe, cioè, mai abbandonato la teologia del Ratzinger “progressista”, quella che ha preso le distanze dalla neoscolastica e dal neotomismo imperante nel periodo preconciliare. Per questo Benedetto non sarebbe stato in grado di sviluppare una vera resistenza al relativismo imperante culminante nell’Amoris laetitia di papa Francesco. Le sue dimissioni manifesterebbero la sua impotenza.
Le critiche di de Mattei non sono isolate nel mondo del conservatorismo cattolico. Il volume di Enrico Maria Radaelli, Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo (Edizioni pro manuscripto Aurea Domus, Milano 2017), è sintomatico, da questo punto di vista. Radaelli, già collaboratore della cattedra di filosofia della conoscenza, diretta da monsignor Antonio Livi presso la Pontificia Università Lateranense, è curatore dell’Opera omnia di Romano Amerio, l’autore di Iota unum, l’opera di riferimento della reazione anticonciliare in Italia. Nel suo testo Redaelli evidenzia come la dialettica tra seguaci di Benedetto e seguaci di Francesco sia una falsa dialettica. Benedetto non è mai stato “ratzingeriano”, non è mai stato il conservatore dipinto dai progressisti, in ciò solidali con i tradizionalisti. La teologia di Ratzinger è la teologia del Concilio. Tesi riprese da Livi il quale in un suo articolo del 2 gennaio 2018 scriveva di ritenere “indispensabile, nell’attuale congiuntura teologico–pastorale, tener conto di quanto ha esaurientemente dimostrato Enrico Maria Radaelli nel suo ultimo lavoro (Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo, Edizioni pro manuscripto Aurea Domus, Milano 2017), ossia che l’egemonia (prima di fatto e poi di diritto) della teologia progressista nelle strutture di magistero e di governo della Chiesa cattolica si deve anche e forse soprattutto agli insegnamenti di Joseph Ratzinger professore, che mai sono stati negati e nemmeno superati da Joseph Ratzinger vescovo, cardinale e papa”.
Livi si riferisce qui al testo di Ratzinger del 1968 Einführung in das Christentum (Introduzione al cristianesimo). Scrive Livi: “Insomma, conclude Radaelli, la teologia che Ratzinger ha sempre professato e che si ritrova in tutti i suoi scritti, anche in quelli firmati come Benedetto XVI (i tre libri su Gesù di Nazaret e sedici volumi di Insegnamenti) non è sostanzialmente diversa da quella della Einführung, ed è una teologia di stampo immanentistico, nella quale tutti i termini tradizionali del dogma cattolico restano linguisticamente inalterati ma la loro comprensione è cambiata: messi da parte, perché ritenuti oggi incomprensibili, gli schemi concettuali propri della Scrittura, dei Padri e del Magistero (che presuppongono quella che Bergson chiamava ‘la metafisica spontanea dell’intelletto umano’), i dogmi della fede sono re-interpretati con gli schemi concettuali propri del soggettivismo moderno (dal trascendentale di Kant all’idealismo dialettico di Hegel). A farne le spese – osserva giustamente Radaelli – è soprattutto la nozione di base del cristianesimo, quella di fede nella rivelazione dei misteri soprannaturali da parte di Dio, ossia la ‘fides qua creditur’. Questa nozione risulta irrimediabilmente deformata, nella teologia di Ratzinger, dall’adozione dello schema kantiano dell’impossibilità di una conoscenza metafisica di Dio, con il conseguente ricorso ai ‘postulati della ragione pratica’, il che comporta la negazione delle premesse razionali della fede e la sostituzione delle ‘ragioni per credere’, che costituivano l’argomento classico dell’apologetica dopo il Vaticano I (Réginald Garrigou-Lagrange) con la sola ‘volontà di credere’, che fu teorizzata dalla filosofia della religione di stampo pragmatistico (William James). Ratzinger ha sempre sostenuto, anche nei discorsi più recenti, che l’atto di fede del cristiano ha come suo specifico oggetto non i misteri rivelati da Cristo ma la persona stessa di Cristo, conosciuto nella Scrittura e nella liturgia della Chiesa”.
Una conclusione corretta, quest’ultima, che nulla però ha a che fare con il trascendentalismo kantiano e l’idealismo hegeliano a cui Livi vorrebbe ricondurre la teologia di Ratzinger. Il Ratzinger critico di Rahner diviene, nell’arbitraria e fantasiosa ricostruzione di Livi, un Ratzinger “rahneriano”.
“Le analisi di Radaelli sui testi di Ratzinger mi hanno fatto comprendere perché questo grande teologo abbia accettato come inevitabile, al giorno d’oggi, l’interpretazione fideistica del cristianesimo e abbia squalificato come inutile ‘apologetica neoscolastica’ il ritorno alla dottrina classica dei praeambula fidei, che è certamente di Tommaso d’Aquino ma è stata anche recepita nei documenti dogmatici del Concilio di Trento e del Concilio Vaticano I. La ragione sta nel fatto che fin dagli inizi, cioè fin dalla Einführung, Ratzinger partecipava a quell’efficientissima operazione culturale che Cornelio Fabro definì come ‘avventura della teologia progressista’ e che non ha come unico protagonista Karl Rahner”.
Si tratta di conclusioni sorprendenti che permettono di evidenziare tutta la fragilità della neoscolastica tradizionalista. Nella conclusione del suo breve saggio è lo stesso Livi che sconfessa se stesso laddove riporta un brano di Ratzinger, senza commentarlo, un brano in cui Ratzinger si oppone frontalmente al trascendentalismo kantiano di Rahner. Scrive Ratzinger: “Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner e io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione, ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico” (Josef Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, p. 123).
L’impostazione di Ratzinger non è neoscolastica, ma non per questo è trascendentalistica. Su questo punto la critica tradizionalistica a Ratzinger è del tutto fuori luogo e assolutamente evanescente. Importante, tuttavia, perché dimostra in modo chiaro come la riduzione di Ratzinger ad un certo “ratzingerismo” non sia assolutamente corretta. Benedetto XVI può certamente essere criticato per alcune sue scelte, quelle dei collaboratori in primis, per una prevalenza della posizione eticista che ha oscurato, talvolta, la dimensione missionaria. E tuttavia, il pensiero cattolico, se vuol avere un futuro, non può dimenticare la grande lezione sul rapporto tra teologia e storia che il teologo tedesco ci ha consegnato.
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