Bolle, pionieri e la ragazza di Hong Kong è un viaggio alla ricerca dell’identità americana, lungo il racconto della vita di tanti suoi protagonisti. Il percorso di voci e immagini qui proposto guarda al grande paese d’oltreoceano per rintracciare la stoffa di cui è fatto, nel tentativo di individuare l’essenza dell’esperimento americano. Le vicende vissute per le strade di una terra ricca di fascino e di promessa, ma anche di asperità e violenza, nascono da persone che imparano a dire “io”. Da qui, emergono criteri e spunti per comprendere meglio il momento storico che stiamo attraversando.



L’America si è costruita, passo dopo passo, dal maturare dell’esperienza personale degli uomini e delle donne che con le loro scelte e le loro vite hanno dato forma a questo paese. Per parlare quindi della storia americana possiamo attingere direttamente ai loro racconti, ascoltando lettere, scritti, e testimonianze non solo di grandi personaggi, ma di schiavi, contadini, madri di famiglia, pionieri. Eventi e protagonisti qui presentati non seguono un criterio cronologico o di esaustività. Piuttosto, si tratta di flash in cui ci siamo imbattuti, che abbiamo desiderato conoscere e far conoscere per le intuizioni che contenevano. 



Con l’eccezione dei nativi, già stanziati in America secoli prima dell’arrivo degli europei e da questi barbaramente decimati, gli abitanti di questo continente giungono qui solo negli ultimi sei secoli. Partiti dall’Europa alla ricerca di qualcosa per vivere, di una possibilità per costruire, di quell’opportunità che la madrepatria non era più in grado di offrire loro. Oppure rapiti e portati a forza dall’Africa per sopperire alla necessità di manodopera.

Sono persone con culture diverse, parlano lingue diverse, e seguono religioni diverse. Anche le tradizioni cristiane al loro interno sono differenti e talvolta nemiche tra loro. Ma per gli uni e per gli altri, il punto comune è il ritrovarsi a essere protagonisti, volutamente o forzatamente, di questo esperimento. È la possibilità misteriosa di cominciare da capo la costruzione di una società senza poggiare su di un’origine e una tradizione comune.



La mancanza di istituzioni e poteri preesistenti, insieme a spazi naturali così estesi, aprono un oceano di possibilità. Il poter fare e costruire senza i condizionamenti di uno Stato o di una chiesa porta gli americani, fin dall’inizio, a rifondare tutto, perfino rinnovando la propria tradizione religiosa. La stupefacente vastità delle distese a perdita d’occhio e le opzioni sconfinate del “paese delle opportunità” sono i refrain che appaiono continuamente nelle canzoni e negli scritti degli americani: un’idea che “tutto è possibile”, così come il cuore di ogni uomo desidera.

Un secondo aspetto, meno conosciuto, alla radice dell’identità di questo popolo è la solitudine: non solo l’essere soli (loneliness), in un paese così vasto che obbliga a viaggiare ore per incontrare un’altra persona, ma anche l’occasione per riscoprire la propria interiorità ritrovando in sé una domanda, un’esperienza talmente comune che viene creata una parola per esprimerla (solitude).

L’esperienza della solitudine è misteriosa, si rivela nei modi e nei momenti più disparati e inaspettati: dopo la tanto attesa fiera annuale dei pionieri o al ritorno dalla luna, come accade all’astronauta Buzz Aldrin. Altri, come Ralph Waldo Emerson, giungono ad intravedere in essa la porta di entrata a un mondo alquanto sconosciuto. Di fronte a ogni sconfitta, di fronte a ogni delusione, di fronte a ogni perdita o tradimento, non siamo giunti a “un muro”, dice, ma si aprono di fronte a noi “interminabili oceani”.

Questa silenziosa dimensione, però, diventa inquietante quando non è indicata una strada da percorrere. Alcuni hanno l’intuizione che la risposta abbia a che fare con “l’onnipresente inventore del gioco”, ma per molti egli rimane sconosciuto, “senza nome”, e perciò irraggiungibile.

Infinite possibilità e solitudine fanno emergere, osserva Tocqueville in Democrazia in America, la coscienza dell’essere “io” nelle persone giunte a vivere qui. Possibilità (o libertà) e solitudine sono presenti anche nell’esperienza degli schiavi, portati a forza in questo paese per costruire strade, ponti e ferrovie, per coltivare i campi e generare ricchezza, in molti modi accelerando la crescita economica. Costoro, che non hanno mai conosciuto la libertà in America, hanno sempre avuto il coraggio di sognare di essere liberati, e non hanno mai smesso di chiederlo nelle loro preghiere al Dio che hanno conosciuto proprio attraverso coloro che li avevano resi schiavi. Se giungere in queste terre è per il pioniere la sorpresa delle infinite possibilità, per lo schiavo è la negazione della libertà. Per il pioniere, la solitudine che da una parte accompagna la scoperta dell’io, dall’altra, di fronte a una tale vastità e ricchezza di possibilità, lascia sopraffatti, al punto da spingere a una fuga da se stessi. Al contrario, per lo schiavo, l’impotenza diventa dialogo e domanda di essere liberati.

Negli ultimi centocinquant’anni, la storia è proseguita all’insegna di un grande sviluppo economico e della supremazia del progresso tecnologico che, insieme a tentativi di organizzare una “grande società” e a ripetuti impegni per l’integrazione, hanno dato al popolo americano un senso di sé potente e ottimista. Allo stesso tempo, le continue tensioni sociali e civili e l’evidenza di un’integrazione mai compiuta hanno esacerbato la coscienza del “peccato originale” americano (il quasi genocidio di un popolo e il rapimento di un altro per costruire il paese). E i tempi più recenti hanno conosciuto la guerra fredda, il tragico “equilibrio nucleare”, i tentativi fallimentari di politica estera in Corea e Vietnam prima, e più tardi, in Iraq, seguiti dagli attacchi terroristici dell’11 settembre. Tutto questo ha fatto esplodere la contraddizione tra il credere di avere infinite possibilità e il non riuscire a risolvere le grandi questioni che la storia fa emergere. 

Di fronte a ciò, anche quando tutto sembra sconfitta, alcuni, come i nipoti degli schiavi, come James Baldwin e Martin Luther King, hanno il coraggio di guardare dentro le tenebre alla ricerca di una luce che possa dissolverle. Altri, invece, tentano di creare spazi per difendere e preservare quanto già guadagnato, erigono muri contro il nemico percepito, costruiscono bolle dove isolarsi, sentirsi al sicuro, e illudersi di far scomparire qualunque contraddizione. Per evitare la paura, istituiscono leggi draconiane che imprigionano milioni di persone per reati minori e costruiscono quartieri ricchi ed esclusivi dove le persone indesiderate non possono permettersi di vivere. Eppure il guscio, la bolla, non ha la capacità di tenere fuori il dramma della vita. E la paura che qualcosa possa accadere e rompere il fragile equilibrio riempie di ansia.

Questo tipo di chiusura difensiva sta in realtà interessando tutto l’Occidente. Il mondo non appare più una prateria ricca di possibilità, ma viene percepito come una minaccia in cui si rischia di perdere ciò che si è conquistato.

Che cosa può spingere a uscire dalla bolla? Cosa può far tornare a essere dei pionieri contemporanei? Fatti imprevedibili, come il miracolo di un amore che spalanca. “E se l’amore fosse a Hong Kong, impareremmo a nuotare”.

La mostra offre degli spunti attraverso cui entrare nello spirito originario americano. Lettere, interviste, riflessioni, autobiografie, musiche aiutano ad immedesimarsi nei suoi protagonisti e testimoniano che un’avventura di questo tipo, in fondo, è sempre possibile.

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