Una caratteristica, a mio avviso, accomuna gli autori più eccelsi. Qualunque cosa essi scrivano ‒ sia pure una lettera, una recensione o anche solo un breve aforisma ‒ ha comunque un indubbio valore letterario. Da quelle poche righe, infatti, emerge quasi sempre ciò che potremo chiamare la tavolozza espressiva, la fragranza particolare, lo stilema che contraddistingue tale o talaltro scrittore. Ma va ribadito: tutto questo accade solo se egli è uno di quelli che hanno segnato il secolo di propria appartenenza. Come Rainer Maria Rilke, il più poetico tra i poeti in lingua tedesca del Novecento, l’autore del Malte, delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo. Tuttavia i lettori ‒ in genere ‒ s’accostano appena ai capolavori dei Grandi, disdegnando quasi i testi ritenuti minori, che di rado vengono presi in considerazione. E questo fa sì che piccole ma preziose perle narrative restino celate negli scaffali delle biblioteche e non effondano il fulgore che emanerebbero, se soltanto si desse loro uno sguardo. Questa lunga premessa (avvalorata dall’opinione di Robert Musil, secondo il quale non vi è quasi nessuna parola di Rilke inferiore alle altre) solo per invitare alla lettura d’una antologia di brevi ma sfavillanti prose rilkiane appena edita da Adelphi e intitolata Del paesaggio e altri scritti.



Il libro inizia con due testi all’insegna d’una dolce-amara contrapposizione: quella fra l’ottusa crudeltà vigente nei collegi militari asburgici, ben noti al giovane René, e l’apertura educativa/innovativa d’una istituzione scolastica svedese, “che non conosce costrizioni”, essendo “una scuola arrendevole, che non si considera una cosa finita, ma in divenire, alla quale debbono lavorare gli stessi fanciulli, determinandola e trasformandola”. Una scuola con classi miste (quasi impensabile altrove, agli inizi del Novecento), che ‒ narra un entusiastico Rilke, ostile alla pedagogia repressiva allora imperante ‒ “non emana odore di polvere, d’inchiostro o di paura, ma di sole, di legno biondo e d’infanzia”.



Seguono due pezzi di poche ma intense pagine intorno alla pittura di paesaggio ed al rapporto uomo-ambiente, i quali costituiscono una sorta di trattato d’estetica in miniatura, da cui emerge inoltre una sensibilità ecologica non certo meramente tardo-romantica e dove si avverte non solo la consapevolezza che “i gesti della maggior parte degli uomini che abitano negli agglomerati urbani hanno smarrito il loro rapporto con la terra”, ma pure che la tecnologia della modernità sta operando sul mondo naturale “con oscure forze, che non possiamo dominare”.

Queste pagine riflessive sono percorse altresì da mirabili descrizioni. Specie quelle intorno a un ambiente rurale che oggi non esiste più e viene colto dalla penna di Rilke con una forza evocativo-suggestiva teneramente elegiaca; come lo schizzo sull’interno di una casa contadina, che “consiste quasi tutto in un unico spazio, un lungo e largo vano ove l’odore e il tepore del bestiame, insieme con l’acre e denso fumo del focolare privo di cappa, si mescolano a una meravigliosa tenebra, in cui sarebbe possibilissimo smarrirsi”. Tuttavia non c’è ombra di retorica qui, solo l’urgenza di celebrare le cose; quasi esse necessitassero della nostra presenza ‒ soprattutto di quella d’un pittore o d’uno scrittore ‒ pur essendo noi umani tra tutte le cose del mondo i più evanescenti, come dirà Rilke nelle Duinesi. E ciò per il fatto di poter essere testimoni del loro esserci (Dasein); in quanto capaci di una attestazione peculiare, caratterizzata dall’aver coscienza di come accada: “Una volta / ogni cosa, solo una volta. Una volta e non più. Ed anche noi / una volta” (Nona Elegia).



Nella silloge troviamo anche felici narrazioni di sogni e ricordi. Persino delle bambole e dei gatti fanno la loro apprezzabile comparsa in questi scritti davvero caleidoscopici; nonché vengono riportate singolarissime esperienze, durante le quali l’io narrante, o uno dei personaggi qui ospitati, volge la propria attenzione a un oltre che non implica alcun tipo di miraggi più o meno visionari, ma allude semmai allo stupore per il miracolo d’una trascendenza immanente, costituita dal sentirsi: “immerso nella natura, in una contemplazione quasi inconsapevole”, o anche appena da un melodioso “richiamo d’uccello” che “esisteva fuori e nel suo intimo concordemente”. Altrove si tratta nello specifico di poesia ‒ ma ogni prosa rilkiana è sempre poetica o tratta del poetare ‒, che equivale per il Nostro a dar voce al mondo o al suo “splendore che una finestra, nell’aprirsi, getta nel mattino sospeso”. Tenendo però conto, rispetto allo scriver poesie, di questa ammissione/consapevolezza da parte dell’autore: “sono lontanissimo dal ritenerle cose che si inventano”.

Verrebbe da dire, semplificando alquanto, che per Rilke l’autentica poesia viene alla luce solo quando sorge “dalla necessità”, come egli scrive in una delle Lettere a un giovane poeta. Una necessità a cui un autore non può assolutamente fare a meno di conformarsi, giusto scrivendo, al fine precipuo di testimoniare la più schietta esperienza esistenziale. Quel che conta insomma, secondo il grande praghese, è “Prendere in mano le cose terrestri giustamente, pieni di cordiale amore, di meraviglia, come cose nostre, effimere, irripetibili”.

Interessante la sottolineatura dell’impermanenza quale cifra indicativa quante altre mai della comune condizione che affratella uomini ed eventi: contraddistinti, presto o tardi, dalla caducità. Ma è al contempo l’implicita esortazione a non considerare mai banali i vissuti, per quanto ordinari essi siano, giacché per un autentico scrittore nessun ambito è insignificante. Ne consegue un accorato/reiterato invito a vivere pienamente qualsivoglia situazione/condizione; ad accogliere a cuore aperto ogni circostanza ed ogni cosa, pur se in apparenza spiacevole o dolorosa.

Sarà questa la grande lezione della Nona Elegia, allorché il poeta nel suo capolavoro scriverà: “Loda all’angelo il mondo, non l’indicibile, lui / non puoi vantarti di un superbo sentire; nell’universo / dove egli sente più sensibilmente, tu sei un novellino. Perciò mostragli / il semplice, che, plasmato da generazione in generazione, / vive come una cosa nostra, vicino alla mano e nello sguardo. / Digli le cose.