“Che lo sfondo non divori il primo piano; è il difetto del genere storico”. Così scriveva Flaubert, mentre progettava L’educazione sentimentale: per lui la difficoltà era quella di “collocare i suoi personaggi negli eventi politici del 1848”. Il rapporto tra verità storica e invenzione letteraria tormentò Manzoni per tutta la vita; l’autore dei Promessi sposi giunse a ripudiare il suo capolavoro in nome della fedeltà ai fatti accaduti. Goethe, che era un suo grande ammiratore, elogiò il romanzo ma criticò i capitoli sulla peste in quanto, a suo dire, lo storico aveva preso la mano al poeta. Ma, se pensiamo ai grandi modelli del romanzo storico ottocentesco, dai Promessi sposi a Guerra e pace di Tolstoj, alla fine ciò che ci resta nella memoria non sono la guerra del Monferrato o le imprese napoleoniche, ma le figure di Lucia, di Renzo, dell’Innominato, lo sguardo al cielo di Austerlitz del principe Andrej morente, o Natascia, la ragazza innamorata della notte. Lo sfondo, pur importante e ricostruito con rigore, non divora il primo piano, per usare le parole di Flaubert, e il vivido fluire delle singole vite lascia di sé un ricordo immortale.
Così, per citare due romanzi italiani tra i più belli degli ultimi decenni che utilizzano uno sfondo storico, Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi e La masseria delle allodole di Antonia Arslan, portiamo con noi non tanto la dittatura di Salazar nel Portogallo del 1938 o il genocidio degli armeni del 1915, ma le figure dei personaggi che si stagliano in quel cupo scenario: il giornalista Pereira, mediocre e abitudinario, capace poi di scelte coraggiose in nome della verità destata dall’amicizia con il giovane collaboratore Monteiro Rossi; o la grande madre Shushanig del romanzo della Arslan, straziata dalla tragedia familiare e da quella del suo popolo, ma in grado di resistere indomita alle persecuzioni fino al viaggio verso Venezia, quando i suoi figli saranno in salvo.
Abbiamo pensato a queste vicende leggendo Il mio nome nel vento, edito da Mondadori, primo romanzo di Alessandro Rivali, finora conosciuto come poeta tra i più interessanti della sua generazione (nato nel ’77, ricordiamo solo l’ultimo La terra di Caino) e saggista, studioso di Pound e di Giampiero Neri. Il romanzo ricostruisce con cura minuziosa le vicissitudini della famiglia Moncalvi, dietro cui si cela la famiglia dell’autore, a partire dal luglio del 1936, quando divampa la guerra civile in Spagna e i Moncalvi, di origine ligure, devono lasciare precipitosamente Barcellona, dove avevano fatto fortuna aprendo una gastronomia che arrivò a contare 18 dipendenti. Raggiunta Genova, trovano riparo in una villa di campagna dell’alessandrino, in cui trascorrono alcuni anni beati, confortati dall’avventurosa figura di uno zio ritrovato.
Ma quell’Eden durerà poco, travolto dal vento della Seconda guerra mondiale e dall’occupazione della stessa villa Moncalvi da parte dei nazisti, i quali compiranno stragi orrende, come quella della Benedicta, un antico convento divenuto sede di un comando partigiano. Lo zio si trasformerà inopinatamente da viveur a partigiano, ma la storia riserverà altre sorprese, come l’apparire di un ufficiale nazista colto e intelligente, che instillerà l’amore per gli studi di medicina nel giovane protagonista.
Quello che resta scolpito nella mente del lettore è soprattutto la figura del piccolo Augusto, detto Gutin, personaggio in cui riconosciamo il padre dello scrittore, morto pochi mesi fa e che fece in tempo a leggere le bozze del libro. Il mio nome nel vento è prima di tutto un omaggio al padre e potremmo aggiungere agli altri padri, letterari, di Rivali, recentemente scomparsi: Cesare Cavalleri, direttore delle Edizioni Ares, e Giampiero Neri, che Rivali ha contribuito a trarre dall’ombra. Altre figure indimenticabili sono quelle della sorella Giulia, che consegna i suoi sogni di ragazza ad un prezioso diario; allo zio dannunziano che sa trasformarsi in presenza confortante e coraggiosa; a Laura, dolce e ferma, vibrante di splendore nei suoi riccioli neri. Ma tratteniamo anche l’immagine di personaggi minori, come il vecchio custode Mario, capace di introdurre il giovane Moncalvi nel fascino della vita dei boschi.
Su tutto domina la presenza del vento, “promessa di novità”: apre il libro con la citazione in esergo del Partigiano Johnny di Fenoglio ed è l’ultima parola del romanzo. Lo attraversa tutto, da capo a fondo, portando “l’ondata della vita”, secondo i versi di Montale.
Rivali scrive pagine intense, che hanno fatto ricordare a qualcuno quelle epiche di Tolstoj; ma forse rimandano ancora di più al tono epico-elegiaco del Fenoglio del Partigiano e di Una questione privata, soprattutto nelle descrizioni di fughe e rastrellamenti sulle colline piemontesi, e ad alcune pagine indimenticabili del Cavallo rosso di Eugenio Corti, intrise di verità e di bellezza.
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