È un libro che obbliga a molto pensare l’ultimo saggio di Francesco RoatMiti, miraggi e realtà del ritorno (Moretti&Vitali 2020), una vera e propria corsa campestre attraverso alcuni dei più cruciali sentieri problematici dell’umanità. Perché questi “ritorni” sono davvero da lasciare senza fiato, anche se l’autore, da buon pifferaio magico, promette uno sterrato armonico col melodioso titolo Preludio dato alla nota introduttiva – mentre punta, non casualmente al cielo, la pistola-starter. Roat presenta in poche limpide righe una serie di quesiti che potrebbero occupare i tomi di un’intera biblioteca: dalla possibilità di una “ripresa/riformulazione di sé nella consapevolezza del nostro permanere”, nonostante le trasformazioni fisiche e psichiche, all’ipotesi di considerare in ritorno un “universo oscillante/ricorrente” dopo un big freeze o un big rip o un big crunch; dalla sofferenza a rischio patologico della nostalgia alla decifrazione dell’eterno ritorno zarathustriano, dal rifiuto dei ritorni nella “catena samsarica” di Buddha al desiderio di tornare all’utero materno.



Molti saranno variamente affrontati nei tredici capitoli successivi, altri indirettamente inclusi di tangente. Ma intanto qui si porgono, sul vassoio d’argento, delle buone occasioni, invitanti prelibatezze da apericena: “In queste narrazioni mitopoietiche la meta del vivere diviene il ritorno: non un ritorno statico/fantasmatico e paradisiaco però, poiché il raggiungimento di esso non comporta nessuna stasi bensì un nuovo percorso che potremmo – figurativamente/allusivamente – chiamare a spirale, il cui corso sempre si volge ininterrottamente ripercorrendo orbite analoghe ma non necessariamente identiche”.



La spirale, sì, che con le sue orbite insieme concentriche ed eccentriche, secondo il verso considerato dirige a una meta dentro (del sé?, dell’interiorità?, dell’individualità?, dell’unicità irripetibile? del particolare?) o a una meta fuori (dell’alterità?, dell’oggettività?, della universalità?, dell’Uno/Dio/Tutto?); la spirale che mi riporta ad antichissime culture, anche lontanissime tra loro, le quali l’hanno assunta a segno del contatto con il divino e con la morte: come quella che a Chavin de Huantar (Perù, testimoniata dal 900 a.C.) ha scolpito nei corridoi sotterranei del Tempio antico un pilastro, il Lanzòn, sul quale si avvolge il corpo della divinità quasi tutto di spirali semplici e doppie; oppure come quella che a Brù na Bòinne (Irlanda, a partire dal 3200 a.c.) scolpisce spirali doppie, triple, semplici sui grandi massi d’ingresso e circondariali dei tumuli e sugli altari interni dove va a fermarsi il raggio del sole dopo aver percorso il lungo corridoio nel solstizio d’estate.



La spirale che la Grande Madre del Neolitico ha spesso per occhi e per segno di sé; la spirale che forse più d’ogni altro simbolo dell’umanità chiude in sé la duplice-opposta direzione della vita: nascita e morte, origine e fine. Ricordando, poi, Roat, che è la memoria a permettere che un io frammentario e in costante mutamento si ri-costituisca e ritorni alla “consueta struttura animale/vitale” identitaria, mi viene da pensare da una parte alla sostanziale enorme fiducia proustiana – e bergsoniana – di potere far ritorno al tempo perduto, nonostante la complessità problematica della recherche; fiducia condivisa, seppure in termini differenti, da tutti coloro che hanno recuperato e fissato la propria realtà in memorie, da Rousseau a Primo Levi. In fondo, anzi non troppo in fondo, sta in questa fiducia anche il recupero del passato – recentissimo o lontanissimo che sia – della storia.

Dall’altra parte mi viene in mente quanto del cervello e delle sue funzioni la moderna biologia vada scoprendo, mettendo sempre più in discussione la reale consistenza dell’io, della volontà, della scelta, del ricordo. Passando di corsa per Lacan, Freud, Jankelevitch, infine Roat pare trovare una provvisoria sosta in una epoché, una sospensione di giudizio che, se riecheggia l’indicazione di Meister Eckhart per l’“uomo religioso” (“Niente vuole, niente sa, niente ha”), però si ancora, si sostanzia in un forte riferimento all’eterno ritorno nicciano, interpretato come l’eternamente darsi dell’“attimo o presente” sempre “eguale a se stesso”, pur nel mutamento che è solo apparenza.

Quindi il mutamento non è una perdita, qualcosa che smette di esistere, che c’era e poi non c’è più, perché ciò che appare, è, esiste, non è falso o inferiore rispetto a qualcosa di statico, fisso, che resterebbe nascosto. L’eterno ritorno, infine, è il ripetersi dell’essere in continuo divenire, in mutamento, senza una direzione ideale per Nietzsche che ne faccia rintracciare un senso. Un’ancora molto mobile, come si intuisce e si vedrà in tutti i passaggi caudini dei capitoli a venire. Perché dietro questi ritorni, eterni, possibili, impossibili che siano, s’annida la più sconvolgente qualità del reale: l’impermanenza.

A compimento del mio colloquio col testo di Roat voglio aggiungere la piacevole scorrevolezza del suo pensare, che scivola nella mente senza inciampi concettuali o lessicali proprio come una musica, senza peraltro rinunciare a una complessità notevole dei temi e della loro trattazione. Roat inoltre dimostra un’attenzione davvero straordinaria per l’altro-che-legge, a cui non dà nulla per scontato, e che guida con grande precisione alla corretta comprensione corredando il testo di note che precisano i riferimenti necessari, di continue adiacenze sinonimiche che chiariscono i concetti, di frequentissime citazioni da altri autori che dimostrano apertura teoretica al confronto – e anche allo scontro-discussione nell’eventuale garbato disaccordo – nonché capacità di mettere in rete ed intrecciare le proprie conoscenze per una ricerca non dottrinale e statica, ma originale e propositiva di impensato.