Ho conosciuto Francesco Roat grazie al suo eccellente saggio Nulla volere, sapere, avere. I Sermoni di Meister Eckhart (Le Lettere), di cui l’amico Marco Vannini, massimo esperto del maestro domenicano, aveva curato l’edizione. Mi aveva colpito, oltre alla capacità di andare al nocciolo delle perle del grande mistico medievale, l’acume con cui, traducendo dal tedesco, Roat aveva offerto al lettore una lezione di etimologia filologica che, come sempre in quest’arte interpretativa, consente di penetrare in profondità il significato dei termini.



Nell’ultimo suo libro – Lacrimae rerum. La cognizione del dolore (Moretti&Vitali, 2023) – ho ritrovato quel gusto, quel vizio scrutatore amato da chi ama ascoltare, comprendere: per usare lo stile del saggista di mettere in corsivo termini che vuole evidenziare, cercare di “prendere con noi” appunto.

Da un lessico compreso abbiamo molto da imparare, a volte da tacere. Solo un esempio: “Così l’a-teo – scrive Roat – può essere visto non già come chi nega dio (theos), bensì – vedi l’“a” privativo con cui inizia tale vocabolo – chi ne è privo”. Oppure il fenomeno assai diffuso della mancanza di interesse per l’esistenza o accidia, dal greco “Akedia (da a-kedos, senza cura)”.



Temi da approfondire nel corso della vita, quelli che troviamo in Lacrimae rerum, che apre con una Premessa curiosa, in cui leggiamo come sia nella Bibbia che nel Buddhismo la vita sia una valle di lacrime, per cui i pessimisti ne potrebbero dedurre – come dice il satiro Sileno riportato da Nietzsche – che morte è assai consigliabile avvenga al più presto. Morte, dolce morte, sin dal quadro in copertina di De Morgan in cui ritroviamo la tenera immagine dell’angelo della morte come nel mito indiano di Mrtyu (qui ripreso da Ka di Roberto Calasso): la dolce fanciulla, figlia di Brahma, che, dopo aver meditato per milioni e milioni di anni sulla richiesta del padre di essere la morte, con le lacrime accetta il suo ruolo indispensabile.



Ci ricorda Roat che “l’antico monito: memento mori (ricordati che devi morire) è occasione forse ancor più indispensabile oggi…” che nel medioevo, quando veniva ricordato per strada dagli ecclesiastici, come in Non ci resta che piangere all’impacciato Massimo Troisi che assicura “mo’ me o segno”.

Roat indaga il tema del dolore, della violenza, del male ripercorrendo in sintesi non solo il pensiero di grandi pensatori del calibro di Seneca, Lucrezio, Nietzsche, Freud, Jung, Schelling, Heidegger, Petrarca, Dostoevskij, Leopardi, Simone Weil… ma attingendo anche a pensatori contemporanei, cercando di sviscerare come questi fondamentali aspetti, che ognuno di noi vive quotidianamente come realtà individuale e sociale, trovino il loro riscontro nel mondo odierno, per esempio nell’eutanasia.

Spesso il libro assume la forma della recensione di libri che l’autore ha amato, sino ai capitoli omaggio ad Anna Maria Ortese e allo psichiatra Eugenio Borgna. Un invito ad approfondire autori e temi basilari che forse oggi sono stati messi da parte dall’invasione del mondo virtuale effimero.

Ma personalmente è il capitolo La morte trasfigurata che mi solca l’anima. Qui Roat s’inchina dinnanzi al poeta romantico per antonomasia, al sublime Georg Philipp Friedrich von Hardenberg, che si diede lo pseudonimo di Novalis, “terra nuova, da dissodare”, che esprime il suo essere e dei cui Inni alla notte Roat, come già fatto per i sermoni di Meister Eckhart, cita brevi brani significativi, in una sua felice traduzione. Riporta altresì per intero l’esperienza mistica che il giovane poeta descrisse con versi indelebili. Un inno ispirato dalla morte della quindicenne Sophia, che mi ricorda i tre incontri con la Divina Sophia, la Saggezza Divina, che Vladimir Sergeevič Solov’ëv descrisse nel suo racconto Tri svidanija. Tre appuntamenti, tre esperienze mistiche in cui ritroviamo il mistico azzurro: “Subito tutto si fece di un azzurro dorato” e ancora: “Azzurro intorno, azzurro nella mia anima. Penetrata d’azzurro dorato”, quasi come in Novalis: “giunse da azzurre lontananze – dalle sommità della mia antica beatitudine un brivido crepuscolare – e d’un tratto si ruppe il legame della nascita – il vincolo della luce”.

Roat ci segnala anche due straordinarie testimonianze pratiche di “vita di Luce”: Giovanna Romanato e Massimiliano Maria Kolbe. Non ne riporto nulla, dicendo solo che sono ben sintetizzate nel libro.

L’ultimo capitolo lo dedica alla Mistica, alla “Realtà della mistica”, alla cui base vi è il Distacco che solo ci può condurre all’antico, quanto attuale, ideale di vita: conosci te stesso (γνῶθι σαυτόνgnōthi seautón), e la meditazione/contemplazione che egli dipinge come il “volgere uno sguardo non-giudicante a tutta la realtà”. Mistica come esperienza dell’Essenza, che nel Buddhismo si esprime nella quarta nobile verità, il Nirvana: l’emancipazione dall’attaccamento, dall’avversione, dal desiderio, ovvero il raggiungimento dell’equilibrio, della vacuità, della “gioiosa quiete”, della libertà. Il capitolo termina con una citazione del mio caro Raimon Panikkar e con un estratto dalla Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Oltre Roat non poteva in questo libretto, che scorre rapido, ma tutto da approfondire.

Tenera infine la testimonianza personale nel Post scriptum del primo incontro con la morte da parte del bambino Francesco Roat, il più gradevole degli incontri con lei, grazie al nonno che con semplicità esprime una massima da meditare: “È vero che un giorno ci toccherà morire, ma tutti quanti gli altri giorni sono da vivere”.

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