In questo periodo si fa a gara a proclamarsi figli – magari i figli non splendenti, i figli un po’ sotterranei – del secondo Novecento, quello che ha segnato la fine delle ideologie dominanti e progressive e che ha aperto la coscienza al globale, ridando nuovi spazi alle domande profonde dell’esistente. Pochi però, di quel secondo Novecento, possono proclamarsene davvero padri, quanto all’immaginario prodotto, e altrettanto schiettamente figli, quanto agli episodi storici e ai conflitti. Tra questi esuli delle letterature ufficiali, delle narrative istituzionali, un posto di spicco va assegnato allo scrittore cileno Roberto Bolaño (1953-2003).
Giallista psicologico, peraltro, in un tempo in cui il giallo storico – quello classico, quello a enigma, quello che ha per colpevole il maggiordomo e per protagonista un detective o un ispettore – è ormai demodé e allora tutti in quel mondo si sentono portavoce del thriller o del noir. Della violenza dura o dell’investigazione (sociale o introspettiva che sia). Figurarsi Bolaño, che sulla struttura del giallo ha giocato non poco, prendendola, deformandola, quasi portandosela addosso come una croce, perché fondamentalmente legato a scopi altri, a esigenze interiori molto più forti di un colpevole singolo purchessia da mettere alla sbarra.
Nel 1973 vive la sua piccola Repubblica di Weimar, l’abbaglio delle socialdemocrazie fragili che vengono annientate dai totalitarismi in un battito di ciglia. In Cile il programma socialista costituzionale di Salvador Allende non dispiace anche a tanti rivoluzionari, come il Bolaño giovane, d’indole trotzkista. Bisognerebbe aprire un capitolo a parte, sulla Quarta Internazionale e i trotzkisti: poca presa di massa, ma capaci come pochi di impostare la discussione giuridica sulla forma-partito (quando la forma-partito d’antan poteva ancora essere curata, guarita: oggi, servirebbe resuscitarla). Mentre così Roberto insegue il suo personalissimo romanzo di formazione tra le due sinistre, quella massimalista e quella riformista, Augusto Pinochet prende il potere e il giovane si trova catturato.
Le voci storiografiche sono discordanti, ma è probabile davvero che il Nostro sia stato liberato coi buoni uffici di vecchi compagni di scuola, che ne furono carcerieri. Non capitò a lui? Capitò ad altri, e a moltissimi non capitò. Questa singolare coincidenza intrinsecamente irrazionale, e ciò che è irrazionale è sempre fungibile nel caso (capita a me e non a te), sarà lo spunto del popolare racconto I Detective. Ed è un indiretto atto di denuncia contro la guerra civile, il frazionismo esasperato, i vicini di casa che stavano sullo stesso piano e a seguito del colpo di Stato si trovano gli uni dominanti e gli altri dominati. Rimessi non allo statuto di cittadinanza o all’unione del credo, ma alla benevolenza (o ferocia) delle circostanze occasionali.
Stilisticamente, del resto, Bolaño ricorda più un Pessoa più caotico e imbevuto di Dostoevskij che un pensieroso Simenon da brasserie. Il verosimile nella sua narrativa non è un approdo della trama, è una precondizione di sviluppo: prende apocrifi, eteronimi, vittime plausibili e salvati occasionali per farne delle saghe lunghissime; un pub di Joyce finito in una vineria (o in un mattatoio) cileno.
Gravemente debilitato da una pericolosa insufficienza epatica, il suo primo pensiero erano i figli. Puntava a scomporre la sua allora copiosissima opera inedita in più uscite, affinché potessero capitalizzarsi maggiori diritti patrimoniali d’autore. Più che contraddetto, lo scrittore cileno è stato “controverso”: la sua narrativa è un tempestoso presepe barocco chiamato letteratura. È lì che è nudo ciò che persino la vita veste: la salvezza contro la morte, prima della morte, persino durante la morte. Giovanni Crisostomo ammoniva, forse a sua volta rapito di sbalordimento: cari tiranni usurpatori e leciti imperatori, non avete idea di cosa abbiano fatto con la grazia un’accolita di pubblicani e pescatori.
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