Ci voleva un autore di canzoni per insegnarci come scrivere di musica. E se a farlo è l’autore delle più belle canzoni degli ultimi sessant’anni, si può stare sicuri che il risultato è straordinario. Bob Dylan scrive i libri come scrive le canzoni: con un ritmo irresistibile, pieno di humor, di saggezza, di visioni e con ricchi riferimenti storici e culturali. Lo avevamo già potuto appurare con la sua auto biografica Chronicles, ne abbiamo la conferma in questo meraviglioso libro che prende in esame 66 canzoni e le affronta, le viviseziona, si addentra nella cultura che le generò, fa omaggio, le consacra perché, dice “la musica appartiene al tempo ma è anche senza tempo; qualcosa di cui fare memoria e la memoria in se stessa. Anche se raramente lo consideriamo, la musica è scolpita nel tempo come fanno uno scultore o un saldatore che lavorano in uno spazio fisico. La musica trascende il tempo vivendo al suo interno, proprio come la reincarnazione ci permette di trascendere la vita vivendola ancora e ancora”.



Bob Dylan ama la musica; una volta disse che le canzoni sono la sua religione. Non si tratta di una adorazione fine a se stessa, ma della concezione di qualcosa di cui non si può fare a meno, perché necessaria alla nostra stabilità mentale come l’ossigeno. L’approccio di Dylan non ha barriere, confini o comandamenti. Quando scrive di Witchy Woman degli Eagles, ad esempio, dedica al massimo un paio di righe alla canzone. Si addentra invece nel descrivere questa creatura misteriosa, letteralmente una strega, con affermazioni poetiche che sembrano uscire dalla notte dei tempi raccontando il mondo di Marie Laveau, “la regina delle streghe di New Orleans”. Ci scherza sopra e gioca con le parole come solo lui sa fare: “Nel 1954 Bob Luman scrisse e registrò un lato B di un 45 giri rockabilly intitolato Twitchy Woman (“donna nervosa”) (…) 18 anni dopo Bernie Leadon e Don Henley rimossero la prima lettera con parole che descrivevano un amalgama allucinogeno succube e taumaturgico, in parti uguali una tentatrice da troubadour e una vittima dell’era jazz (…) mi domando come mai nessuno ha rimosso anche la seconda lettera e registrato una canzone su una itchy woman (“donna pruriginosa”)”.



Quando scrive di London Calling dei Clash, ci fornisce una descrizione che nessuno aveva mai osato pensare prima del gruppo di Joe Strummer: “La loro era una musica disperata, erano un gruppo di disperati. Dovevano riuscire in tutto e avevano pochissimo tempo. Molte delle loro canzoni sono esagerate, troppo elaborate e ben intenzionate. Ma non questa. Questa rappresenta probabilmente i Clash al loro meglio, più rilevanti e più disperati. I Clash sono sempre stati il ​​gruppo che immaginavano di essere”. Sono un sacco di informazioni racchiuse in poche righe.

E la stessa cosa fa con i Grateful Dead dei quali affronta Truckin’: “I Grateful Dead non sono la tipica rock’n’roll band, sono essenzialmente una band per ballare. Hanno più in comune con Artie Shaw e il be-bop che con i Byrds o gli Stones. C’è differenza con il tipo di donne che vedi dal palco quando sei con gli Stones che con i Dead. Con gli Stones è come essere a una convention porno. Con i Dead è come le donne che vedi al fiume nel film O Brother, where art thou?: galleggiano libere, come serpenti striscianti in un tipico sogno ad occhi aperti (…) Con la maggior parte dei gruppi rock il pubblico partecipa come in uno sport per spettatori. Se ne stanno semplicemente lì e guardano. Tengono la distanza. Con i Dead, il pubblico è parte del gruppo, potrebbero tranquillamente essere sul palco (…) Quando vai a un concerto dei Dead sei a Pirate Alley sulla Costa dei Barbari, vicino alla baia di San Francisco e improvvisamente attraverso una botola ti trovi in Cina e manco lo sai”.



C’è anche una canzone italiana nel libro, Volare (Nel blu dipinto di blu) di Domenico Modugno, il cui impatto a livello mondiale ne giustifica la presenza. Qui Dylan si lascia andare a pura poesia: “Questa potrebbe essere stata una delle prime canzoni psichedeliche, prima di White rabbit dei Jefferson Airplane. Una melodia più accattivante di quanto potrai mai sentire. Anche se non la senti, la sentirai. E’ una canzone che si insinua nell’aria”. E fa anche un sentito omaggio alla nostra lingua: “C’è qualcosa di davvero liberante nel sentire una canzone cantata in una lingua che non conosci (…) Certamente, il tedesco funziona per un certo tipo di polka per la festa della birra, ma datemi sempre l’italiano con le sue vocali gommose al caramello e il suo vocabolario polisillabo melodioso”.

Dylan non fa sconti, ironizzando sui suoi colleghi. Quando scrive di Pump It Up di Elvis Costello, nota correttamente il debito che la canzone ha nei confronti della sua Subterranean Homesick Blues ma offre un’abile doppia dissociazione rivolto a un’altra rock star: “Al tempo di Pump it up, Costello aveva ascoltato troppo Springsteen”. Impagabile.

Da attento osservatore della realtà e del mondo in cui viviamo, Dylan ci dà la perfetta descrizione del bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti e in cui ci rifugiamo, alienandoci i costruendo muri. Lo fa ispirandosi alla censura che ebbe il brano Waist deep in the big muddy di Pete Seeger: “Oggi i media contengono moltitudini di proposte e la gente sceglie quello che gli piace e si dedica esclusivamente a quello. Il modo migliore di mettere a silenzio la gente non è tirarli fuori dai loro gruppi, è dar loro i propri pulpiti personali. Oggi giorno, la gente ascolta quello che già sa e legge ciò con cui è d’accordo. Divorano pallidi ritratti di cose familiari e non scopriranno mai di poter magari apprezzare Shakespeare o il flamenco. E’ l’equivalente di permettere a un uomo di 80 anni di scegliersi la propria dieta. Inevitabilmente sceglierà il cioccolato a ogni pasto e finirà malato con i denti rovinati e pesando cento chili”.

Tutto questo e molto, molto di più. Un libro che si propone di essere una scoperta continua, un affascinante viaggio tra i secoli, le culture, la politica, storie del passato dimenticate, canzoni memorabili che ci hanno segnato profondamente, nel modo unico e vertiginoso che solo Bob Dylan ha, quando canta o quando scrive. Disponibile anche come audio libro con lo stesso Dylan che legge alcuni capitoli (una voce che ha la stessa cadenza musicale delle sue canzoni) e un cast hollywoodiano che comprende tra gli altri Jeff Bridges, Steve Buscemi, John Goodman, Sissy Spacek e  Renée Zellweger, perché per godere pienamente di questo libro bisogna fare lo sforzo di ascoltare o leggere l’originale in inglese. Come godere altrimenti di versi come “Bending the throttle, climbing high and out of control where everything becomes a nebulous blur, nothing up here but your imagination. You’re fluttering and floating, nothing you can’t discover, even the hidden things, the deeper you go, the more you can grasp”?

Il libro esce comunque anche in italiano per Feltrinelli, al prezzo di 39 euro. Chi si lamenta del costo tenga conto che si tratta di quasi 400 pagine con un centinaio di bellissime foto d’epoca a colori e in bianco e nero: foto pubblicitarie, paesaggi e immagini di documentari classici di artisti del calibro di Dorothea Lange e William Klein, negozi di dischi, cantanti, coppie innamorate, scorci panoramici, visioni e tanto altro.

In definitiva, La filosofia della canzone moderna mostra non si tratta solo dell’ampiezza della conoscenza musicale del suo autore, ma della profondità del suo modo di ascoltare. Dylan ha una capacità infallibile di individuare ciò che distingue una canzone – o un cantante o un gruppo – dai loro contemporanei. E non è poco.