Lo volevamo tutti, ma nessuno si era mai preso la briga di farlo. Adesso esiste, e nella gran massa finanche spropositata e in molti casi inutile di libri su Bob Dylan, è arrivato quello che davvero mancava. Ci ha pensato Francesco Donadio (scrittore e ricercatore, autore Rai, speaker radiofonico, autore dell’unica biografia su Edoardo Bennato – Venderò la mia rabbia – giornalista presso Classic Rock e Vinile, caporedattore della webzine da lui co-fondata, Extra! Music Magazine) con un lavoro che per l’ampiezza della documentazione e dei risvolti inediti meriterebbe la pubblicazione anche in America (Freewheelin’ in Rome – La vera storia della prima volta di Bob Dylan in Italia, Arcana, 157 pagine, 15,00 euro
Sì, perché stiamo parlando di una delle pagine più affascinanti e misteriose delle tante che compongono o la carriera del Premio Nobel: una leggenda, un cold case, un giallo, un mistero? Tutto e di più, perché della mitica visita di Bob Dylan al Folkstudio di Trastevere si parla e si dice di tutto sin da allora, il lontano gennaio 1963. C’è chi ha sempre spergiurato sia avvenuta, chi ha detto che lui c’era, chi ha smentito, chi ha detto boh chi lo sa.
In quel locale passava un sacco di gente, era l’unico club non dedito al jazz o alle languide serate della Dolce Vita ed era frequentato in massima parte da anglo-americani, studenti e turisti che qui cercavano un angolino di casa loro. Il proprietario stesso era americano, arold Bradley, cantante e musicista lui stesso.
Non è solo orgoglio nazionalista poter dire che Bob Dylan, giovanissimo, ancora non una star, si sia esibito in Italia: dietro c’è di più, c’è una bellissima storia d’amore. Che avrebbe ispirato a Bob Dylan alcune delle sue più belle canzoni. Tali canzoni, Dylan le ha fatte solo per Suze Rotolo e per la moglie Sara tra le tante storie d’amore che ha vissuto, e questo vuol dire quanto quelle due donne siano state importanti per lui. Ma se per Sara si tratta tutte di canzoni di adorazione, stima, amore infinito, ringraziamenti, per Suze sono canzoni di dolore, di travaglio, amore perduto, rimpianto.
Donadio ha fatto un gran lavoro per raccontare questa storia. Ha riunito nello stesso libro le parole dei due protagonisti comprese nelle rispettive auto biografie, condensando così comodamente in un solo libro quanto disperso in due tomi. Ha ripreso spunti da ogni libro che ha parlato dei due innamorati di West 4th Street, e poi è andato in cerca dei testimoni ancora in vita dei fatti di allora. Vero giornalismo investigativo come raramente accade in Italia dove si “taglia e incolla” quanto scritto da altri.
Donadio ha avuto poi accesso a materiale d’archivio appartenente a collezioni private, come una delle tante lettere che Dylan scriveva di continuo a Suze, o una cartolina inviata da Dylan quando era a Roma in cui racconta le sue avventure italiane, che Suze Rotolo conservò nei cassetti mettendola all’asta solo nel 2006. Tutti questi documenti sono riprodotti nel libro. Ha intervistato i protagonisti di quei giorni là, compreso Bradley che giura di aver conosciuto Dylan al Folkstudio. Non era infatti uno sconosciuto nel giro degli amanti del folk. In fondo Dylan aveva già pubblicato un disco e il suo nome grazie a Blowin’ in the wind che era già conosciuta, stava girando parecchio. Non fece una bella impressione il nostro quella sera.
Giunto a Trastevere la sera dello stesso giorno in cui era arrivato da Londra con Albert Grossman che accompagnava in Italia per alcuni concerti Odetta con l’intenzione di andare a Perugia (ci sarebbe andato, ma avrebbe trovato la stanza di lei vuota, perché era tornata in America) a cercare Suze che da diversi mesi studiava in Italia, il 5 gennaio 1963, entrò nel Folkstudio che era già evidentemente alticcio. Non solo: provò a sedurre senza ritegno la moglie dello stesso Bradley tanto che il proprietario del locale, alquanto arrabbiato, a un certo punto gli disse: perché non sali sul palco e ci fai vedere quello che sai fare? Dylan accettò, ma era senza chitarra. A dargliene una pare sia stato Tony Santagata, allora presenza fissa nel locale, ma Dylan, un po’ perché ubriaco, un po’ perché offeso dal trattamento del proprietario del Folkstudio, pare cantò due canzoni e basta, anzi una e mezza dicono perché visto il disinteresse totale del pubblico mollò tutto e se ne scese, allontanandosi con Grossman nel bar a fianco del locale. Non fu proprio un bell’esordio, quello italiano di Bob Dylan.
Veniamo poi a sapere di quanto l’amore tra i due ragazzi era contrastato, dalla madre di Suze. Donna militante, appartenente al partito comunista americano, con addosso l’FBI (anche Dylan per un certo periodo finì investigato) si rivelò però, nonostante la sua fede politica, decisamente razzista: “Con tutti i bravi ragazzi cattolici che ci sono a New York, proprio di un fannullone ebreo ti dovevi innamorare?”. Così come appare sotto un’altra luce Carla, sorella di Suze, a cui Dylan dedicò una delle sue canzoni più velenosi, Ballad in plaid D, che avrebbe in seguito sconfessato. Carla invece fu una delle figure del Village che lo incoraggiò sempre, e secondo Donadio era anche lei innamorata di Dylan. Insomma, un triangolo morbosamente pericoloso. Dylan torna quindi a New York dove ritrova Suze e riprende la loro tormenta storia d’amore. Ma il cantante sta già entrando nel circolo vizioso del successo, conosce Joan Baez e Suze, da donna indipendente e intelligente, si tira da parte. Comincia un’altra storia.
In definitiva, un libro da leggere non solo per i fan di Dylan, ma per chi è interessato a conoscere un periodo unico della storia italiana del dopoguerra ben descritto in queste pagine.