C’era una volta l’industria musicale. Come tutti i “c’era una volta” si entra in un’atmosfera magica, il che sottende una doppia fregatura: adesso non c’è più e fino a poco fa c’era, neanche un passato remoto ad alleviare la perdita dell’incanto. C’era una volta l’industria musicale, nel nostro caso, è il racconto documentatissimo e appassionante che Francesco Brusco, giornalista e scrittore fine di faccende musicali, svolge in un libro che, se non fosse aggettivo inflazionato, si direbbe “necessario”: La Voce del Padrone. Suoni e racconti dagli studi di registrazione (Jaca Book), da pochi giorni in libreria.



Necessario per qualunque vero appassionato di musica da sempre incuriosito per tutto quello che accade prima e a monte del prodotto artistico finito (perdendo diottrie nella lettura di caratteri miniati sui crediti di fonici, missatori, ingegneri, produttori esecutivi e via dicendo), necessario per chi di musica ha minor smania, ma ama le pieghe della storia sociale ed economica del nostro Paese nel dopoguerra. Entrambi troveranno in queste pagine pane per denti capaci.



La Voce del Padrone, infatti, è da un lato una bellissima storia d’amore per la creazione del suono e delle idee, dall’altro è la rigorosa indagine economica sullo sviluppo dell’industria dai suoi primi vagiti al dissolvimento di fatto. E come tutti i processi produttivi soggetti alle torsioni di mercato determinate dalla rivoluzione elettronica in corso, così anche la fabbricazione, per così dire, di un album (o cd) musicale ha finito per negare, in buona parte, una quota rilevante della propria identità, parallelamente alla scomparsa di luoghi dedicati alla registrazione e alla creazione del suono.



Oddio, si penserà, la solita tiritera sui danni dell’era virtuale? Niente affatto. Brusco liquida la faccenda, con una manciata di ragionevolissime e condivisibili argomentazioni, nelle ultime pagine di un libro che per il resto, probabilmente per la prima volta in modo organico nel nostro panorama editoriale, è la storia della discografia italiana, raccontata dai suoi protagonisti. L’autore risponde, di fatto, alla domanda nient’affatto semplice: “cosa si fa in uno studio di registrazione?”.

Potrà sorprendere, tanto per fare un esempio tra i mille possibili, scoprire quanto fior di produttori e di fonici si spaccarono la testa per tirar fuori dalla voce di Lucio Dalla i colori profondi e malinconici per cui è impossibile non amarlo. L’obiettivo era arricchire il timbro delle modulazioni di fase, arrivando ad un effetto già sperimentato nella voce di Phil Collins nei Genesis. Che a ripensarci dopo sembra quasi ovvio, e invece. Da Milano a Roma, da Bologna a Napoli, ci sono stati decenni in cui, parallelamente al made in Italy della moda, del design o dell’automobile, è cresciuta la discografia sartoriale, capace di dissotterrare tartufi e pulire i diamanti grezzi che saranno gli artisti di quarant’anni di produzione musicale. Gli amanti dell’aneddotica non resteranno delusi alle decine di racconti inediti su tutti, ma proprio tutti, i protagonisti degli anni d’oro: De André, Battisti, Jannacci, Conte, Milva, Dalla, Venditti, Bennato… chiunque venga in mente.

Le vicissitudini di un’era sono contrappuntate dai suoi protagonisti “ombra”: turnisti, fonici, produttori di livello stellare come Mauro Pagani, Sandro Colombini, Vince Tempera, Alberto Radius, Ellade Bandini, Paolo Donnarumma, Aldo Banfi, solo per fare qualche nome. Protagonisti di un dialogo immaginario che si svolge intorno a fili rossi tesi per ricostruire in sincronia le contraddizioni e le gioie di esser parte di qualcosa di nuovo, vitale e creativo. Già, quella creatività che Philip McIntyre, ricorda Brusco nel libro, “descrive come un’attività in cui prodotti, processi e idee sono generati da un agente umano sulla base delle sue conoscenze, partendo da condizioni antecedenti e risultando in un valore aggiunto per la conoscenza umana”. Non male, per esaustività.

Età dell’oro ma non per tutti, perché già a leggere il titolo sottilmente ironico e ambiguo del libro si fa riferimento, chiaramente all’etichetta Gramophone con la bella immagine ispirata alla tela di Barraud, ma si allude anche ai “padroni” che, senza ricorrere alla sociologia marxista, sono quel gruppo di imprenditori, non necessariamente illuminati, sotto i quali si muoveva un mondo non avulso a “caporali”, “stagionali” e subalternità di classe di vario segno. E’ questo il tratto della ricostruzione di Brusco che più interesserà agli appassionati di storia industriale.

Nel panorama attuale sembrerebbero esserci molti meno padroni, pensare che sia merito della cultura “indie” sarebbe romanticamente ingenuo (“Si è sempre indie di qualcuno”, scrive lapidario l’autore) come pure ricondurre la questione alla scomparsa dei supporti: “Per quanto liquida possa essere la musica prodotta, l’industria discografica è ancora regolaga da un solido potere oligopolistico la cui attività non è così immateriale da sottrarsi all’importanza della geografia …. Nonostante tutte le sue contraddizioni, a fine 2021 l’industria del disco – che disco più non è – brinda al settimo anno di crescita consecutivo. In realtà sono solo tre, i calici che tintinnano, e sono marchiati Universal, Sony e Warner”. Poco altro da aggiungere.