“A chi piacciono le interviste? Le interviste in generale fanno schifo, le detesto”. Solo Nick Cave può cominciare così un libro di interviste (Fede, speranza e carneficina, La nave di Teseo, 414 pagine, 21,00 euro). D’altro canto è per questo che lo amiamo. Nessuno come lui. Ci si può però porre legittimamente la domanda se ha senso un libro di oltre 400 pagine di domande e risposte dopo che lo stesso Cave, da anni ormai, risponde a domande di tutti i generi tramite la sua fantastica newsletter, The Red Hand Files nella quale ha toccato anche argomenti privatissimi come la morte del figlio. Può dirci ancora qualcosa? Può aggiungere altro a quanto ci sta dicendo (per quelli di lingua inglese, come sempre più fortunati, c’è da aggiungere poi anche la serie di serate nell’ambito del In conversation tour nelle quali l’artista rispondeva candidamente a qualunque domanda gli fosse posta dagli spettatori)?
Be’, sì, anche se in alcuni momenti la lettura può apparire noiosa, soprattutto quando si dilunga sui metodi di registrazione dei dischi, sulla composizione delle canzoni, gli abiti creati dalla moglie stilista, o a tratti ripetitiva, ma ne vale la pena, che siate amanti di Nick Cave oppure no. Nessun artista, crediamo, si è mai sottoposto a una tale esplorazione di sé che talvolta, vista anche la bravura di chi le domande le pone, il giornalista inglese Seàn O’Hagan, assomiglia un po’ a delle sedute psicanalitiche. Cave, ma lo sapevamo, è l’unico artista rock insieme a Bob Dylan e Leonard Cohen dotato di una cultura, di una intelligenza, di una apertura mentale superiori alla media dei suoi colleghi, per cui il risultato è comunque affascinante e ti tiene incollato al libro da inizio a fine. C’è tutto: i genitori, la sua adolescenza nella campagna australiana, gli inizi caotici e distruttivi con i Birthday Party, l’eroina (per la quale, in modo che lascerà molti interdetti, si dichiara per la legalizzazione), le violente litigate che hanno posto fine al rapporto con i suoi massimi collaboratori di quello che per molti è stato il suo periodo d’oro, Blixa Bargeld e Mick Harvey, andare in tour e soprattutto la comunione unica che ha instaurato dopo la morte del figlio con il suo pubblico perché, dice “siamo tutti in pericolo”.
Ma soprattutto c’è suo figlio morto Arthur. Nonostante averne parlato a lungo durante i Red Hand Files, Cave entra nei dettagli dei suoi tormenti e della sua persona come mai prima. Iniziate con lo scoppio della pandemia, queste conversazioni più che interviste rivelano tutto e di più.
“La perdita di mio figlio mi definisce”, dice a inizio libro. E più tardi: “La cosa che è successa che ha cambiato tutto è stata che Arthur è morto”. Ma come è cambiata la sua vita davanti al lutto più devastante che un essere umano possa subire, la perdita di un figlio? In meglio, anche se può sembrare una bestemmia. La disperazione iniziale lo ha portato a dire che adesso la sua vita è migliore, che finalmente è diventato un uomo, l’uomo che non era mai riuscito a essere. Questo è stato possibile solo con una esperienza, quella della fede: “Il termine spirituale è un po’ amorfo per i miei gusti. Può significare qualunque cosa, mentre religioso è più specifico (…) la religione è la spiritualità corredatadal rigore e avanza delle richieste (…) non sono affatto interessato alle idee più esotiche di spiritualità. Sono attratto da quelli che molti considererebbero tradizionale principi cristiani”. Nick Cave sta dicendo che per lui Dio si identifica con una esperienza concreta, quella della Chiesa, e non con visioni vaghe e astratte. Spesso in passato aveva detto di essere fortemente interessato a Dio, tutte le sue canzoni sin dai tempi dei Birthday Party sono intrise di Antico e Nuovo testamento, ma aggiungeva di non essere per nulla un praticante (in questo senso si ride quando racconta di quando, trent’anni fa, un giornalista si presentò a intervistarlo dicendogli che il suo direttore gli aveva chiesto esplicitamente di non fare domande su Dio: ovvio, per il mainstream non si può fare musica rock ed essere interessati a Dio).
Più avanti, nel libro, dirà di come adesso frequenti la chiesa: celebrazioni liturgiche, preghiere, meditazione.Nick Cave è ancora sulla soglia, ma sta entrando: “Penso che sarei più felice se smettessi di guardare le vetrine e mi decidessi a entrare nel “negozio” della fede assoluta in Dio”. Ma l’idea di Dio di Cave si fonda sull’idea di libertà, che è la cosa più grande che un credente possa percepire mentre invece proprio l’istituzione-Chiesa ha fatto di tutto per negarla: “Credo che l’unico modo in cui possa darmi interamente all’idea di Dio sia avere lo spazio per la domanda. A mio avviso il grande dono di Dio è che ci fornisce spazio per il dubbio. Per me il dubbio fornisce l’energia della fede”. E’ quella che, teologicamente, viene definita la libertà che Dio ha lasciato agli uomini. Essere cristiani non vuol dire avere raggiunto la meta del senso dell’esistenza. Questa è la lezione più grande che Nick Cave ci dà sul tema. Infine l’empatia che solo un credente sa vivere: “La religione ha poco valore se non assolve a una più grande funzione: il benessere di tutti”.
Il libro concede molto spazio alla creazione e alla nascita di Ghosteen, al momento il suo ultimo disco di canzoni nuove. Tutti, al primo ascolto di questo disco, abbiamo avvertito un forte senso di disagio. Cave ci spiega perché: “Sono convinto che il suo spirito (di Arthur) abiti quest’opera e non intendo in senso metaforico, ma in senso letterale”. Una presenza che anche noi abbiamo avvertito, ma non osavamo confessarlo.
Alla fine di questo libro straordinario, c’è un fatto che ha permesso all’artista australiano di vivere questa esperienza di liberazione dal dolore, dal male, di compiere il suo destino in un modo che lo ha reso migliore. E’ qualcosa che tutti noi amanti della musica condividiamo, ma che quasi sempre ci dimentichiamo, oppure mettiamo in un angolo perché richiede troppo impegno, troppo lavoro su di noi. E’ qualcosa che percepiamo, ma che neghiamo. Cave ce lo dice come già fatto in passato e glie ne siamo grati. Abbiamo un privilegio, e dobbiamo tenerlo caro: “La musica ha la capacità anche per un momento limitato di condurci in un luogo sacro. La musica risuona nel desiderio che molti di noi provano in modo istintivo, sai quel buco a forma di Dio. E’ la forma d’arte che può effettivamente riempire quel buco perché ci fa sentire meno soli a livello esistenziale. Ci fa sentire connessi a livello spirituale. All’apice delle sue possibilità può evocare uno spazio sacro”. Amen.
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