There’s no success like failure/ And that failure’s no success at all (non c’è successo come il fallimento e il fallimento non è mai un successo). Per molti versi, queste parole di un Dylan ancora giovanissimo, ma già acutamente consapevole delle contraddizioni, dei paradossi, dei timori, delle sofferenze che minacciosamente incombono sulla vita di ognuno, possono riassumere il tema complessivo di questo bel libro di Paolo Vites, «Rock’n’Roll Suicide. Il Lato Oscuro del Rock» (Caissa Italia Editore, 2022).



Che il rock abbia un suo lato oscuro, noi tutti, fedeli discepoli della sua religione, lo sappiamo bene: e forse è proprio questa sua oscurità a rendercelo particolarmente prezioso, come se le nostre angosce, riflettendosi nello specchio ambiguo della musica, potessero trovare sollievo e catarsi. Ma Vites non ci parla solo di questo. Raccontandoci le fini tragiche degli artisti che più abbiamo amato (da Neal Casal a Kurt Cobain, da Luigi Tenco a Chris Cornell, da Ian Curtis a Michael Hutchence e molti altri), il saggio delinea l’imprevista colonna sonora di un’intera epoca, drammaticamente scissa fra l’aspirazione al successo, dipinto come un obbligo al quale nessuno può sottrarsi, e il prezzo che in nome di questa aspirazione obbligata viene pagato, con le tetre monete del fallimento, dell’insensatezza, della depressione.



La depressione, appunto: il male che si nasconde, insidioso, dietro ai luccicanti miti della performance, dell’autorealizzazione, della produttività. Non a caso, Vites dedica il suo libro proprio a tutte le persone che soffrono di depressione, che contro la depressione, inevitabile figlia del sentimento di inadeguatezza al quale ci condanna la gara per arrivare primi ad ogni costo, lottano quotidianamente. Spesso, troppo spesso, questa lotta viene combattuta con le armi spuntate delle droghe, e non conta che si tratti di droghe illegali o legali, come i farmaci da prescrizione che hanno originato negli Stati Uniti la tristemente nota «epidemia di oppioidi», ormai ufficialmente una vera e propria «emergenza nazionale»: un’epidemia che, ci racconta Vites, ha contato vittime illustri, come Elvis Presley, Michael Jackson, Prince, Tom Petty. Perché alla fine un momentaneo sollievo si sconta con la dipendenza. E la dipendenza ti getta nuovamente nelle braccia della depressione, in un loop infinito e disperante, troppo spesso interrotto nel modo più definitivo e irrimediabile: la morte, non importa se cercata consapevolmente o capitata per caso, per un errore, un accidentale sovradosaggio, un’imprudenza, una distrazione, una colpevole sottovalutazione delle conseguenze da parte di chi avrebbe dovuto curare e aiutare. No, il sogno americano non è mai gratis.



Come sempre, come è suo compito, l’artista ha antenne sensibilissime nel cogliere i traumi di un’intera epoca e nel descriverli nel modo più efficace e autentico: ma lo fa sulla propria pelle, diventando di fatto la vittima sacrificale destinata ad espiare i mali che ci affliggono. Ogni capitolo del libro, ciascuno dedicato ad una rockstar, non a caso è scandito dai versi delle canzoni. Ed è sconvolgente constatare come il dolore di queste esistenze, che alla fine ne sono state travolte, sia stato pubblicamente esibito, raccontato senza pudore, un vero e proprio grido d’aiuto, e proprio per questo trasformato in merce dall’impietoso meccanismo dello star system. Ma quel grido è stato davvero ascoltato da qualcuno? Noi, il pubblico, gli appassionati, i fan, abbiamo bisogno di quel dolore, perché in qualche modo giustifica e ci rende comprensibile il nostro dolore: e c’è sempre qualcuno pronto a vendercelo. Ma per chi se n’è fatto interprete e cantore raramente c’è redenzione.

L’ultima esibizione di Chris Cornell con i Soundgarden, quarantacinque minuti prima del suo suicidio, è lì a raccontarcelo: ultima in scaletta, la loro Slaves & Bulldozers , all’interno della quale viene inserita una citazione da In My Time of Dying, gospel tradizionale già reso celebre, fra gli altri, da Bob Dylan e i Led Zeppelin. Chris Cornell avanza sul palco, si avvicina al pubblico, lo guarda e canta:

Meet me, Jesus, meet me
Ooh, meet me in the middle of the air
If my wings should fail me, Lord
Oh, please meet me with another pair.

Well, well, well, so I can die easy
Oh-oh, well, well, well, so I can die easy.

Jesus gotta make up, somebody, somebody
Oh, oh, Jesus gotta make up
Jesus gonna make it my dyin’ bed.

La voce da sussurro diventa grido, Cornell afferra l’asta del microfono, si piega all’indietro, come per una supplica, ripetendo Jesus gotta make up, torna a percorrere il palco, chiude la performance sulle note di Slaves & Bulldozers, ringrazia il pubblico con i gestie le grida di ringraziamento abituali in questi contesti: e gli spettatori, come sempre accade in chiusura di un concerto, alzano le mani, applaudono, urlano, in quella particolare condizione fra estasi e delirio che chi frequenta i parterre conosce bene. Ma non ci sarebbe stato nessun altro concerto, quei pochi istanti di intensa comunione fra il performer e chi lo seguiva e lo amava sarebbero stati gli ultimi, a testimoniare la loro tragica impossibilità di colmare il vuoto di una singola esistenza che sul palco si era offerta in tutta la sua insostenibile fragilità e solitudine, in his time of dying.

Ed è proprio per questo che il libro di Paolo Vites è importante. Perché dall’altro lato di queste storie di tragica infelicità ci siamo noi: il pubblico, i fan, gli appassionati, tutti coloro che hanno imparato più da una canzone di tre minuti che da anni di scuola, tanto per parafrasare Bruce Springsteen, un altro che conosce bene la trappola della depressione. «Rock’n Roll Suicide» non è solo un saggio sul lato oscuro del rock e le sue implicazioni individuali e sociali. È anche, e soprattutto, un commosso omaggio al sacrificio di uomini e donne di incredibile talento e sensibilità, che da questo stesso talento, da questa stessa sensibilità sono stati schiantati. Per noi, senza che lo sapessimo, o potessimo prevedere che il prezzo sarebbe stato così alto: ed è il motivo per cui queste morti ci colpiscono in profondità, perché ci parlano di noi e, ogni volta, ci lasciano più soli e inermi. Fallimento, successo, successo, fallimento: parole che in queste vicende, che in una certa maniera sono parte anche della nostra storia, stingono l’una nell’altra, si sovrappongono, si confondono, così come ci ammoniva Dylan tanti anni fa.

Paolo Vites apre il libro con la sua «Lettera a un amico», dedicata a Neal Casal e pubblicata dopo l’inatteso suicidio dell’artista statunitense, nel 2019. Non sono le parole di un critico, non sono un necrologio di maniera. Sono il racconto intenso e coinvolgente di una frequentazione di anni, di un’amicizia nata con la musica e per la musica, troncata repentinamente dalla morte, una morte che lascia senza fiato e, apparentemente, senza spiegazione. Neal Casal non ha mai risposto alle domande che Vites gli aveva mandato per un’intervista poche settimane prima del suicidio: e questo suo silenzio diventa una potente metafora della nostra incapacità di entrare davvero in relazione con la parte più intima e individuale di una sofferenza che pure gli artisti scelgono di condividere con il mondo intero e che di conseguenza diventa anche il riflesso del nostro male di vivere.

«Ehi Neal, se molli tu, mollo anch’io. Ehi Neal, non dirmi che quella canzone parlava di te, vent’anni fa».

Le pagine di Paolo Vites sono anche un tentativo di trovare risposta al tragico paradosso rappresentato da questa e dalle altre tragedie: tragedie che si consumano in piena luce, ma che, proprio per questo, ci accecano. “Rock ‘n Roll Suicide» è, in fondo, preghiera laica, l’unico ringraziamento possibile quando tutto il resto è già stato detto e dall’altra parte c’è solo il silenzio. Per noi tutti, che alla musica tanto dobbiamo, vale davvero la pena leggerlo.