È di un lirismo che quasi fa male al cuore il nuovo libro di Paola Tonussi, Rupert Brooke. Lo splendore delle ombre (Ares, 2024): una splendida biografia e insieme invito alla lettura in una collana che ha saputo inanellare, nel tempo, profili letterari di eccezionale finezza, dal debutto col Dino Buzzati di Antonia Arslan, attraverso la meraviglia del Graham Greene. Il tormento e la fede di Fulvio Fulvi, la potenza di Tolstoj. Il fuoco interiore, di Elisabetta Sala, la sottigliezza del T.S. Eliot di Daniele Gigli, la delicatezza del Camillo Sbarbaro di Francesco De Nicola, senza dimenticare il John Steinbeck di Fernanda Rossini, Guido Gozzano. Il crepuscolo dell’incanto di Gianfranco Lauretano, e il Pascoli curato da Bruno Nacci.
In questo profilo biografico di Rupert Brooke, Paola Tonussi, scrittrice dalla vena fervida e profonda, un po’ come aveva fatto per la sua Emily Brontë edita per Salerno (2019), ci presenta una personalità poetica e insieme umana profondamente, intimamente ribelle. Sì, perché essere ribelle non implica soltanto assumere atteggiamenti di rottura violenta con l’ordine familiare e sociale; essere ribelli, per Rupert come per Emily, ha significato, per prima cosa, seguire le proprie inclinazioni poetiche – potremmo dire il proprio “demone” interiore – a dispetto di tutto e tutti, a dispetto delle convenzioni sociali e a costo di uscire dalla strada maestra percorsa dalla stragrande maggioranza.
E se l’autrice di Cime tempestose è la giovane donna volitiva solitaria, che esercita la sua ribellione nella letteratura, con la sua immaginazione potente e vivida, e nella sua solitudine a contatto con la bellezza selvaggia della brughiera, Rupert Brooke resta per il lettore fissato nel ritratto del giovane di sfolgorante bellezza, innamorato dello splendore della natura, nel cui grembo lussureggiante riposa per sempre, a Sciro, isola di Achille. Il suo funerale, infatti, si tiene alla luce delle torce, il 23 aprile 1915, nel giorno di San Giorgio patrono d’Inghilterra; gli amici hanno vestito Rupert con l’uniforme e inciso il suo nome e la data di morte direttamente sulla bara di legno semplice: non c’è tempo per apporre una targa. Gli ufficiali francesi che partecipano al rito ve lo adagiano con le sue armi, la coprono con la bandiera britannica. Di lì a qualche settimana, il 3 agosto, avrebbe compiuto ventotto anni.
I compagni hanno deciso di seppellire Rupert nella radura di ulivi dov’erano stati insieme giorni prima: in una conversazione occasionale, infatti, Rupert aveva detto che gli sarebbe piaciuta un’isola greca per tomba. Non c’è tempo per un rito più elaborato, né per salutare la tomba alla luce del mattino: la nave su cui Rupert e gli amici erano imbarcati, la Grantully Castle, dovrà salpare il 24 all’alba per invadere i Dardanelli.
Ma, quando essi lasciano Rupert Brooke sotto il tumulo di pietre chiare e l’ulivo, tra le pecore e le capre nell’isola di Achille, più di uno tra loro pensa di aver assistito non solo a una morte, ma anche a una nascita: “come stessimo vivendo l’origine di un mito classico” dirà Kelly. La morte di Brooke servirà in effetti il mito meglio che se fosse caduto in battaglia: non deturpato da ferite, mutilato o intaccato, il giovane poeta è stato trasportato dai compagni tra ulivi e fiori, allo stesso modo antico in cui i combattenti greci avevano portato a spalla quello di Byron. L’eternità si è spalancata in una radura sulla collina: la tomba coperta di pietre chiare è una vertigine di solitudine. Remoto, assente, il mare che circonda l’isola riluce alla luna. La leggenda ha inizio”.
Dopo questo folgorante Prologo, Paola Tonussi ricomincia dalle origini, raccontando la vita di Rupert Brooke, mitica figura della generazione dei War Poets, seguendolo dalla nascita, nel 1887, attraverso gli anni della scuola e dello studio, in cui si forma la sua personalità affascinante: studente brillante, sportivo e amante della natura, vegetariano ante litteram, studioso di John Donne e di Jean Webster, cantore della precarietà della bellezza, ma anche di sonetti sulla guerra, che, quasi malgré lui, gli hanno dato la fama di War poet. E poi, le avventure amicali e culturali, i viaggi in Germania e il rapporto, spezzato e tormentato, con Katherine Cox, detta “Ka”, che P. Tonussi definisce “angelo e soldato dai modi semplici e protettivi” (p. 66). L’amicizia con Rupert inizia in sordina, non una favilla incandescente ma un ciocco che brucia lento e paziente: “Stare con lei – scriverà l’amica Frances Cornford – era come star seduti in un verde campo di trifoglio”.
A lei, negli ultimi giorni di vita, già stremato e indebolito, con già i primi segni di quell’afta alla bocca che lo condurrà alla setticemia fatale, mentre il pensiero della morte si fa sempre più vicino, Rupert scrive il suo addio, e per l’ultima volta le parla di quanto poteva essere e non è stato: “Tu sei quel che più s’avvicina all’idea di una mia vedova. Dirò alla Rani (il soprannome che Brooke dava alla madre Mary Ruth, nda) che, dopo la sua morte, le mie carte dovranno andare a te. Forse qualcuno vorrà scrivere una biografia! Come potrò saperlo se non sarò celebre? E prendi tutti i MSS che vuoi. Dì quel che vuoi alla Rani. Ma forse sarebbe meglio non dirle niente. Lasciale l’illusione. Lasciala pensare che ci saremmo sposati. Forse è vero. Mia cara, mia cara, mi hai ferito: ma io ti ho ferito molto di più. Mi sembra di più ogni giorno. Sei stata la cosa più bella che ho avuto nella vita. Lo ricorderò sempre. Sai cosa voglio per te. Spero sarai felice, ti sposerai e avrai dei bambini. È bene che io muoia. Arrivederci, bimba, Rupert”.
Robert Brooke è tra i sedici poeti della Prima guerra mondiale onorati nell’ardesia all’abbazia di Westminster a Londra; quanti sono interessati alla storia e ai monumenti possono, certo, andarlo a omaggiare lì, ma forse possono farlo meglio e più tutti coloro che, in un prato o in riva a un fiume, sotto le ampie fronde di una pianta rigogliosa, possono sperare di ritrovare nella natura una scintilla di quella vitalità che Rupert cantò in versi immortali.
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