“L’aspetto eticamente caratteristico del misticismo è l’assenza di indignazione e di protesta, la gioiosa accettazione, il rifiuto di ammettere come verità ultima la divisione in due campi ostili, il bene e il male. Questo atteggiamento è conseguenza diretta della natura dell’esperienza mistica: al suo senso di unità è legato un sentimento di pace infinita. Si può anzi sospettare che sia il sentimento di pace a produrre, come avviene nei sogni, l’intero sistema di convinzioni collegate”. 



Chi scrive queste parole è un filosofo la cui immagine dominante è quella della rigorosa razionalità: Bertrand Russell. L’autore specifica che si tratta di un saggio “a carattere divulgativo” – aggettivo che suona un po’ strano oggi, per uno scritto il cui titolo, Misticismo e logica, contiene due parolone difficili da maneggiare, anche se per ragioni quasi opposte: la maggior parte delle persone sono convinte di pensare in modo “logico”; e quanto al misticismo, nessuno sa esattamente che cosa sia.



Forse questi termini avevano un suono un po’ diverso nel 1914, quando uscì quello scritto di Russell (ripubblicato quest’anno insieme a vari altri saggi in un volume il cui titolo collettivo è appunto Misticismo e logica, a cura del Corriere della Sera). Ma poco importa la terminologia: le questioni in gioco, che peraltro quel saggio discute in forma assai chiara, sono urgenti e fondamentali oggi come lo erano più di un secolo fa. Basti notare che queste parole su “un sentimento di pace infinita” apparivano all’inizio della Grande Guerra: è l’ironia della storia, che ovviamente si fa sentire anche quest’anno. Ed è proprio questo ciò che ne determina l’urgenza; perché non c’è bisogno di essere “mistici” per provare questi sentimenti: basta interrogare la propria sensibilità. 



Una docente di lingua italiana in un liceo cattolico di Brooklyn scriveva recentemente in una email: “Se tutti noi su questo benedetto pianeta terra dedicassimo più tempo e spazio alla nostra vita interiore, le situazioni di guerra, per esempio, sarebbero molto più rare. Se non si coltiva la pace interiore con il nostro Creatore e con noi stessi, come possiamo aspettarci di andare più o meno d’accordo con gli altri? Sembra una cosa banale e anche trita e ritrita, ma la verità a volte è anche molto semplice, più semplice di quanto ci si aspetti”. 

In effetti, potremmo chiamare questa affermazione una “briciola di filosofia” (e Briciole filosofiche, cioè una filosofia in briciole è il titolo di un libro di nientemeno che Søren Kierkegaard). Chi pensa deve prestare attenzione anche alle briciole del pensiero, proprie e altrui; e ogni pensiero ne stimola altri che possono anche prendere vie in parte diverse.

Nulla di banale, dunque, nelle frasi appena citate; ma guardiamoci dall’illusione che vi siano formule semplici e chiare, seguendo le quali la pace sia assicurata. Illusioni di questo tipo sono state coltivate  anche da molti illustri filosofi, ma tali restano. È il caso per esempio del saggio rigorosamente laico di Immanuel Kant: Per la pace perpetua. Progetto filosofico, risalente al 1795. Sono pagine pensose, ovviamente (e rafforzate da una prefazione e un saggio postfatorio, nella riedizione Feltrinelli dell’anno scorso, con fior di citazioni da una vastissima bibliografia sulla pace e il pacifismo); ma anche pagine che oggi, francamente, suonano come un’esasperazione quasi grottesca del razionalismo illuministico.

Meglio dunque lasciare da parte un certo pacifismo astratto: la guerra (non ci sarebbe bisogno di dirlo) è “sporca”; ma anche la pace – il cui perseguimento ovviamente resta vitale – non è mai completamente “pulita”: per l’inevitabile ambiguità delle sue manovre e del suo linguaggio, per i suoi sempre ridotti e temporanei risultati (nei quali comunque emerge l’importanza spirituale dell’attività diplomatica). Sembrerebbe allora che non resti che ripiegare sullo scetticismo (le guerre ci saranno sempre) e, com’è stato detto, su un certo nichilismo, per cui l’unica soluzione sarebbe l’aumento continuo dei contrapposti poteri nucleari, il vecchio “equilibrio del terrore”.

In verità la pace e la guerra a cui si pensa in tal modo sono essenzialmente strutture intorno alle quali noi costruiamo le nostre fantasie e paure; soprattutto in queste agitate notti europee in cui sperimentiamo il triste privilegio di sentire una traccia di quelle che sono state le sensazioni delle generazioni precedenti, tra il 1914 e il 1945. Ma qui la risorsa fondamentale è quella già menzionata: l’esperienza interiore; che, se orientata verso il desiderio di pace, è implacabile. Nel senso che non ci dà pace finché non produce qualche conseguenza all’esterno: offrendo ai nostri comportamenti, alle nostre vite quotidiane, una nuova dimensione di amorevolezza. La freccia del desiderio vola continuamente, senza che si sappia bene se vola verso la pace amorevole o vola in quanto scoccata dal desiderio di questa pace; e forse è lo stesso percorso, dentro una circolarità virtuosa.

Tendiamo a vivere – e in particolare, abbiamo vissuto questi ultimi anni – in una linearità che si potrebbe quasi dire bellicosa: incenerendo il presente come passato nel momento stesso (Sant’Agostino diceva già qualcosa di simile) in cui lo bruciamo come futuro. Eppure è possibile coltivare una visione diversa del mondo. La linearità affannosa può essere modificata da un atteggiamento più contemplativo, e poco importa se vogliamo chiamarlo “mistico” oppure no: un atteggiamento che può condurci verso la calma. “L’importanza del tempo è pratica piuttosto che teorica” (scrive Bertrand Russell in quel saggio), “è in rapporto con i nostri sentimenti piuttosto che in rapporto con la verità […] Sia nel campo del pensiero sia in quello del sentimento, pur essendo il tempo qualcosa di reale, rendersi conto della non importanza del tempo è la porta verso la saggezza”.

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