Negli ultimi giorni la Russia è stata al centro di scelte dibattute e controverse: il 4 luglio Vladimir Putin sarà di nuovo in Italia e si incontrerà, ormai per la terza volta, con papa Francesco – un evento che, possiamo dirlo anche sulla scorta delle precedenti visite del presidente russo in Vaticano – è destinato a rivestire un ruolo importante sia nell’opinione pubblica del paese che sullo scenario internazionale. Eppure i vertici del Patriarcato ortodosso si sono affrettati, ancora una volta, a ribadire che non è pensabile in un prossimo futuro una visita del pontefice a Mosca. Si assiste continuamente a un’altalena tra spinte all’apertura e al dialogo, tra l’esigenza di una trasparenza che costringa finalmente i governanti a render conto del loro operato alla società civile, e la tentazione di imboccare la via dell’autoritarismo, in agguato nelle scelte politiche. Basti pensare alla decisione di Mosca, a ventiquattr’ore dai disordini di Tbilisi, di interrompere il traffico aereo fra Russia e Georgia, che resta l’unica via di comunicazione tra i due paesi: un gesto unilaterale, perentorio, senza alcun tentativo di riconciliazione, che non fa certo presagire un appianamento nelle difficili relazioni oggi esistenti.



Proprio in questi giorni sembra tornare alla ribalta la domanda, posta già a suo tempo da Vladimir Solov’ev, sulla vocazione europea o asiatica della Russia (“quale Oriente vuoi tu essere / l’Oriente di Serse o l’Oriente di Cristo?”). Se gli autori russi del XIX secolo parlavano con venerazione delle “sacre pietre” dell’Europa, oggi questo termine assume sovente una connotazione negativa: all’unicità della “via” russa farebbe da contraltare una “Europa” contrassegnata da una generalizzata decadenza morale, dalla perdita dei valori tradizionali. Solo pochi giorni fa i media russi titolavano scandalizzati: il Vaticano ha cambiato il “Padre nostro”. Che mondo può mai essere quello che – se si legge la notizia in questi termini – non rispetta più neppure la sacralità della preghiera insegnataci da Nostro Signore?



Eppure, voci più attente e obiettive all’interno della Russia invitano a guardare all’Europa con rinnovata attenzione: Aleksandr Archangel’skij, pubblicista e giornalista televisivo, ha sottolineato nei giorni scorsi in un’intervista che l’Europa è, sì, il sovranismo di Orbán o il conservatorismo polacco, ma è anche il ben diverso atteggiamento nei confronti della realtà e dei problemi dei migranti – tanto per citare uno dei problemi più scottanti – in altri paesi; in essa c’è posto per i Gilet gialli, ma anche per Macron. Che cosa può tenere insieme questi opposti, che cosa può fondare un pluralismo fecondo e vitale? A contraddistinguere la civiltà europea nel percorso di duemila anni di storia sono stati e sono la razionalità e il personalismo – una ragione che è inscindibile dal soggetto libero, la persona, che la esprime.



Da questo punto di vista la Russia appartiene indubbiamente al corpo della cultura europea. Se non altro perché basta entrare in una qualsiasi libreria di un paese occidentale, per trovare come minimo tre autori russi: Tolstoj, Dostoevskij e Pasternak. In ambito culturale non si avverte alcun bisogno di tracciare alla Russia una “via” particolare, eccezionale: perché la sua è la stessa cultura europea, una cultura basata sulla ragione e sulla persona, dove al centro è il “cuore” umano. E oggi, all’interno della società civile, sembrano appunto scontrarsi fra di loro l’animo “politico”, autoritario e massificante, e quello culturale, a cui, per la verità, in più casi è spettato il compito di scuotere l’Europa dal suo torpore: ad esempio attraverso la cultura del “dissenso”, in epoca sovietica, che ha mostrato un’umanità fedele al proprio volto sullo sfondo della tragedia del totalitarismo.

Questo “animo” si è fatto sentire più volte, nelle scorse settimane: ad esempio, attraverso le proteste di massa degli abitanti di Ekaterinburg, ribellatisi alla costruzione di una chiesa ortodossa nei giardini pubblici della città; le proteste hanno raggiunto dimensioni tali – pacifiche ma imponenti, il sollevamento dell’intera popolazione – da costringere a intervenire come paciere lo stesso Putin, che ha rimesso in gioco la decisione presa dalle autorità sopra la testa della gente e invitato a svolgere dei sondaggi per tener conto delle esigenze della cittadinanza.

Una seconda battaglia vinta in maniera imprevista e insperata dalla società civile è stata la liberazione di Ivan Golunov, un giornalista investigativo in possesso di materiali scottanti su casi di corruzione e frode, arrestato il 6 giugno scorso con l’accusa di detenzione di narcotici. Non è la prima volta, in Russia, che giornalisti subiscono violenze più o meno gravi, e del resto non è un segreto per nessuno che da anni i media russi sono sempre più controllati dai vertici. Ma in questo caso l’opinione pubblica, con il mondo dell’informazione in testa, non si è arresa: i tre principali quotidiani russi sono usciti con la prima pagina in bianco, su cui campeggiava la scritta Io/Noi Siamo Golunov, e hanno fatto seguito vaste manifestazioni in sua difesa, con oltre 500 fermi di polizia.

“Esigiamo una puntigliosa verifica dell’operato degli agenti del ministero degli Interni che hanno partecipato all’arresto di Ivan Golunov, in conformità alla legge, e insistiamo perché i risultati di tale verifica siano messi a disposizione dei mass media. Ci attendiamo dalle forze dell’ordine un’osservanza irreprensibile della legge ed esigiamo la massima trasparenza nel corso delle indagini. Seguiremo attentamente l’andamento delle indagini e invitiamo a coinvolgersi le organizzazioni sociali che hanno delle competenze in merito. Riteniamo che la realizzazione di tali richieste sia di fondamentale importanza non solo per il consorzio giornalistico della Russia, ma per l’intera società russa. Esigiamo che la legge sia rispettata da tutti e per tutti”. Questo il manifesto di una protesta che si è allargata all’intera società civile e che ha portato in tempi record ad appurare che l’intera accusa non era altro che una montatura malamente organizzata dall’alto, alla liberazione di Golunov e al siluramento, da parte di Putin, di due generali che sarebbero i responsabili dell’operazione contro il giornalista. Uno smacco mai visto, finora, per l’establishment.

Ma non mi sono resa conto di tutta la portata morale, culturale del caso Golunov, fin quando non ho letto, sulla pagina Facebook di un sacerdote ortodosso che stimo molto: “Oggi noi russi possiamo tornare a camminare a testa alta, senza vergognarci di noi stessi”. Mi ha ricordato il grido “Vivere senza menzogna” di Solženicyn, mi ha fatto tornare alla mente Sacharov, deciso a combattere la battaglia per i diritti umani pur sapendo che non avrebbe ottenuto alcun risultato, semplicemente perché voleva “vivere da uomo”. È il primato della cultura sulla politica, o meglio, l’emergere di una cultura che detta alla politica ragioni morali, umane, invece di lasciarsi piegare dalla “ragion politica” del potere.