Il malessere diffuso che oggi si percepisce anche solo girando per le strade o affollando lo scompartimento di un treno locale nell’ora di punta, disegnato su facce per lo più mute, sguardi indifferenti o affondati in un cellulare, suggerisce un’immagine solo in apparenza omogenea e impenetrabile. Di fatto sotto quella espressione di estraneità che sembra consolidare una comune condizione, una sorta di rassegnazione scontata e condivisa che assomma i mille motivi che giustificano ansie e paure che attanagliano le giornate, ribolle un’insospettabile esigenza, l’indomita ricerca di qualcosa d’altro che colmi un’aspirazione mai del tutto spenta.



Un fenomeno messo in luce i giorni scorsi da Massimo Gramellini (nella sua quotidiana rubrica sul Corriere della Sera) che ha colto un segnale non trascurabile in un evento che a Milano ha attratto in un palazzetto 4mila persone attorno a Sadhguru, mistico indiano che conta milioni di seguaci in tutto il mondo. Letto come “sintomo di un bisogno generato da malessere non solo economico, ma esistenziale”, l’episodio apre uno squarcio su una dimensione per lo più occultata da una cultura dominante che da tempo ha perseguito una concezione della vita e della società totalmente chiusa nell’immanenza, aliena da un orizzonte metafisico. E su questa ottusità culturale, imperante da decenni e ultimamente sempre più pervasiva e omologante, è interessante orientare lo sguardo non tanto per stigmatizzare i possibili fautori di una deriva dell’umano che si evidenzia in molteplici disagi, quasi in una sorta di “depressione” sociale, ma per recuperare il filo tenace che, pur su percorsi carsici o costretto all’attraversamento di lande emarginate, continua a legare gli esseri umani al loro respiro originale e vitale.



Basterebbe attingere alla vastità dell’arte e della letteratura espressa nei secoli, per ritrovare il bandolo di una vicenda che – come nota Martin Buber nel suo Il cammino dell’uomo – riscopre il suo vero inizio nella domanda rivolta da Dio ad Adamo che si era nascosto: “Uomo dove sei?”. È questa la domanda posta a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni luogo, è la domanda che ogni volta può far vibrare il cuore dell’uomo suscitando in lui il desiderio di uscire dal nascondimento per ritrovare sé stesso nella sua interezza, oltre lo smarrimento della sua solitudine. È un “ritrovamento di sé” che anche ai nostri giorni cambia il percorso di molti, che segna tante storie che difficilmente attirano qualche riflettore producendo qualche eco o intaccando un pensiero culturale fortemente omologato.



L’abolizione della trascendenza dai contesti dell’esperienza quotidiana non è una novità. Le chiese sono vuote, e lo si riscontra da tempo, e anche i segni di una religiosità che fuoriesca dall’intimità di un pensiero e di una coscienza personale, sono sempre più rari. Eppure l’essere umano, per quanto assuefatto alla schiavitù di un’alienazione che lo angustia, è dotato di una bussola interiore, attratto da un richiamo irresistibile verso il ritrovamento di sé, quindi il ritrovamento del Tutto cui tacitamente aspira.

In una titanica pretesa di autonomia l’uomo oggi pare imprigionato nella sua solitudine, alienato in piccole e illusorie speranze che il potere supporta attraverso l’economia, la politica, la cultura mercificata. La negazione di Dio, l’allontanamento dal Padre e dal suo amore infinito, ha di fatto negato all’umanità e al suo tempo il respiro dell’eternità. E sempre più si avverte lo smarrimento, a volte l’angoscia, in questa solitudine di fronte alle questioni essenziali, emarginate e apparentemente silenti, che si affacciano improvvise e debordanti, sfuggenti alla distrazione: chi sono? Che ne sarà di me? Che senso ha il mio esistere in questo giorno, in questa ora?

Domande inestinguibili, da non rimuovere, da non soffocare, ma da far sgorgare senza impaccio, da ospitare con gratitudine: può accadere il giorno – e non è raro – in cui l’illusione non appaga più e l’assurdità del vivere diventa insostenibile, attanaglia il cuore fino a spaccarlo, a schiuderlo alla percezione di una novità imprevista, al rivelarsi di una speranza inimmaginata, sorprendente, che neppure l’angoscia più profonda può arginare. È commuovente il ricordo del teologo Olivier Clement che da bambino aveva posto gli interrogativi brucianti sul perché si vive e perché si muore a suo padre, ateo, che gli disse: “quando si muore è il nulla”. Una risposta per lui opprimente: “Le stelle amate, di colpo mi riempirono di spavento, la notte l’angoscia mi svegliava: il cielo è vuoto. Eppure Dio c’era”. La negazione della vita e della realtà, quel vuoto evocato nelle parole di suo padre, gli aveva fatto percepire che il cielo stellato, nella bellezza impressa nei suoi occhi e nel suo cuore, era il segno di una presenza certa: “Dio c’era… Dio veniva nell’angoscia, ma anche nello stupore”.

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