Ripongo il romanzo Figli di ieri (Ares, 2024) e la prima, autoironica, considerazione è sul mio far parte di un periodo storico, come un rudere pompeiano o un cannone napoleonico. La Milano degli anni Settanta sembra lontana quanto la Belle Époque. La narrazione si dipana negli anni Settanta: di contestazione, di impegno politico ricercato quasi per obbligo assieme a un desiderio di pienezza e di ascesi che, spesso, poteva essere deviato verso obiettivi poco nobili o abbietti.



Nel romanzo di Elisabetta Sala, la temperie di quegli anni è ricreata in modo sapiente e leggero, quasi con discrezione. Eppure chi, come me, ha vissuto quegli anni, ci si può ritrovare ritratto, quasi fosse la comparsa di un film, o un “non player character”, osservando i personaggi, sedendo accanto a loro. Merito di Sala l’aver disegnato personaggi complessi in modo stilizzato, ognuno con una propria storia ben precisa e senza aver calcato il piede sul pedale dell’emozione, cercando l’effettaccio a tutti i costi, come sarebbe stata la tentazione di molti. Sala rinuncia alla tentazione dell’autobiografismo: sarebbe stato facile costruire una protagonista studiosa e innamorata dell’anglismo, come probabilmente è stata lei e fare tutta una narrazione al femminile, tra l’altro oggi così politicamente corretto.



E invece il protagonista è Costantino, un ragazzo emigrato dalla Val Camonica negli anni Sessanta, serio, equilibrato e assolutamente vulnerabile. Intorno a lui altri ragazzi: la misteriosa e determinante Sara, forse il personaggio più intrigante e viscerale, Tore “il terrone”, Paola la vicina di casa, Elsa, di origini indiane e altri ragazzi come Piero, Claudio e Lorenzo, diversi tra loro ma accomunati dal desiderio di cambiare il mondo e cambiare sé stessi.

Pur trattando della politica di quegli anni, Sala tiene le distanze da questo tema perché ciò che le sta a più a cuore sono quei ragazzi, descritti e amati come lo farebbe una mamma. Ed è qui, nella “maternità” di questa creazione artistica, che si rivela l’intrinseca visione femminile del romanzo. Sala è capace di giudizi durissimi, spietati quanto condivisibili, ma queste palle incatenate sono riservate agli adulti che non si impegnano nella vita o manipolano i ragazzi.



Un romanzo da leggere, dai vecchi reduci come chi scrive, agli adulti, ai giovani, per non perdere l’eredità che questa mia generazione (“che ha perso”, direbbe il nostro amatissimo Gaber) non è riuscita a trasmettere al mondo che è venuto dopo. Un’eredità fatta di un costante desiderio di ricerca del bello, tanto più se questa ricerca era impegnativa: non perché fossimo dei geni a scuola (anzi!), non perché fossimo degli stakanovisti dello studio (anzi!), ma perché eravamo così fortunati da essere circondati da ragazzi come noi che amavano musica rock, pop e classica senza distinzione; che ci avventuravamo nella letteratura extrascolastica, da Edgar Lee Masters a Gabriel García Márquez. Perché erano questi gli argomenti di conversazione se non volevi restare fuori dal giro di quelli più in gamba: l’ignoranza non era ammessa né scusata, anche se poteva causare distrazioni rispetto all’impegno scolastico. E così era per la politica: bisognava scegliere qualcosa, sempre, altrimenti finivi per essere come gli ignavi dell’Antinferno dantesco.

Dopo di che, cinquant’anni dopo, ti ritrovi con tanto fieno nella tua cascina mentale, l’impressione che avresti potuto usare meglio il tempo ma che nulla sia andato veramente perduto. Che Elisabetta Sala riporti alla luce la grandezza e la pochezza di quegli anni, descrivendo la caduta di quegli ideali nel finale del libro è un merito che va riconosciuto e di cui dovremmo tutti esserle grati; a partire dai vecchi reduci con “chiome d’argento, irte, fine ed attorte” ma col cuore dei diciottenni, sempre pronti a partire per un’ultima avventura.

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