“Il mondo che abbiamo perduto”: così suonava il titolo di un libro risalente ad alcuni anni fa sulla società pre-industriale. La filosofia che abbiamo perduto, o meglio che abbiamo abbandonato in favore di strade più razionali o razionalistiche, di percorsi antropocentrici che ci hanno fatto sentire moderni: così potremmo intitolare il pensiero di uno dei più grandi autori del Medioevo, Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274).
Perfettamente inserito nel suo tempo, francescano, anzi superiore generale dei francescani, e biografo del Santo di Assisi, docente alla Sorbona, studioso dei nuovi testi di origine araba che diffusero nel mondo latino l’aristotelismo, amico di Tommaso d’Aquino, proclamato santo e dottore della Chiesa, Bonaventura costruisce, nella linea di Agostino di Ippona, alla luce del carisma francescano, una delle cattedrali di cui è costellato il Medioevo cristiano.
A riscoprire oggi la validità e il fascino della filosofia di Bonaventura contribuisce uno studio di padre Fabio Massimo Tedoldi, Le cinque porte dello Spirito (Edizioni Biblioteca Francescana, 2023). L’autore, francescano anch’egli e attuale superiore del Convento di Sabbioncello (Merate), intende accompagnare il lettore in “un viaggio tra i sensi spirituali con san Bonaventura”, come recita il sottotitolo. Così facendo aiuta a liberarne la filosofia da quel clima di pensiero edificante in cui troppo spesso è stata confinata.
I cinque sensi, le cinque porte – il termine è di Bonaventura – attraverso i quali entra in noi la realtà esterna, costituiscono la dimensione interrogativa della persona. Ma non c’è contraddizione nell’espressione “senso spirituale”, dal momento che i sensi sono legati per loro natura al corpo e quindi alla materia? Per il Dottore Serafico – così viene denominato il santo di Bagnoregio – i sensi spirituali non sono che il perfetto uso dei sensi corporali, e si ha quando la persona è rivolta a Dio: i sensi allora partecipano in qualche modo alla ricerca di Lui, ricerca che implica un “andare oltre, procedere verso, cercare a fondo” (Tedoldi, p. 7). Il procedere ascensivo dell’uomo, l’itinerario dai sensi corporali a quelli spirituali, tra la materia e lo spirito è un continuum, non essendovi opposizione o frattura tra i due ordini. Il mondo, la concretezza delle cose create è il primo gradino della scala verso Dio. D’altra parte è solo la vista spirituale che è in grado di cogliere il valore sacro della realtà profana, del cosmo.
Merito incontestabile di Bonaventura è aver dato alla gnoseologia soprannaturale la concretezza del conoscere, annettendo la categoria di esperienza al rapporto dell’uomo con Dio. È un metodo che rispetta e risponde perfettamente alla natura dell’uomo, la quale “è carica di esigenza di sensibilità” come afferma realisticamente mons. Luigi Giussani (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, 2011, p. 133).
La capacità di vedere la realtà esteriore e la presenza di Dio in essa contenuta come segno è detta da Bonaventura cointuizione, ossia vedere insieme, si potrebbe dire – con Tedoldi – vedere doppio. “Chi non è illuminato dagli splendori così grandi delle cose create, è cieco; chi non è svegliato da tanti clamori è sordo; chi da tutte queste cose non è mosso a lodare Dio; chi da indizi così evidenti non rivolge la mente al primo principio, è stolto” (Bonaventura, Itinerario della mente verso Dio, Bur 1994, pag. 101).
Prototipo ed esempio di tale attitudine, data dalla fede, è la figura di Francesco d’Assisi, che nel Cantico delle creature contempla nelle cose l’orma del Creatore e nel sole l’immagine che rimanda direttamente all’Altissimo. Per questo egli può provare diletto (piacere) nel vedere le creature e può perfino provare affetto per “frate verme”. San Bonaventura parla spesso del piacere insito nella conoscenza: il contatto dei sensi con la realtà corrispondente echeggia quella gioia che scaturisce dall’unione dell’anima con Colui che è sommo bene, il solo buono.
Attraverso la vista spirituale noi diveniamo contemplativi. Peraltro Santa Chiara d’Assisi ci fa notare acutamente a questo proposito che il vero contemplativo è prima di tutti Dio, che ci guarda con gli occhi del cuore, con “tenerezza di madre” (Tedoldi, p. 47).
Il libro di Tedoldi si snoda in cinque capitoli, uno per ognuno dei cinque sensi. A proposito dell’udito egli rileva che l’uomo è per natura un ascoltatore grazie agli orecchi, ma c’è di più: chi vuole essere discepolo deve sviluppare una ascetica dell’ascolto, premessa necessaria per l’obbedienza e infine coincidente con essa (p. 92-93). Ascoltare è pure condizione per la difficile arte del dialogo, in cui chi parla rivela un messaggio, comunica una verità, si consegna all’altro. Dirsi è darsi, dice icasticamente l’autore.
Perfino il tatto, a prima vista il più grossolano dei sensi, in quanto è a disposizione di tutti (basti pensare alle mani), ha a che fare con l’itinerario verso Dio, anzi di questo itinerario è il culmine. Il Dio fatto carne abita tra noi corporalmente e si rende a noi palpabile, abbracciabile. Occorre fare esperienza per poter capire, dice il Dottore medievale, fortemente convinto che “c’è di più nell’esperienza dell’affetto che nella considerazione dell’intelletto”. Del resto l’inno gregoriano Jesu dulcis memoria (in Canti, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2002, pag. 34, con traduzione italiana) parla della gioia vera, della dolcezza, della bontà che solo chi ne fa esperienza – expertus – può credere.
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