Celebriamo nell’anno in corso il 750esimo anniversario dalla morte di san Bonaventura, uno dei due grandi dottori del secolo XIII, allorché l’Occidente cristiano latino si confrontò direttamente con il ritorno di Aristotele, portato dagli arabi. L’altro grande Dottore del secolo XIII è Tommaso d’Aquino, anch’egli morto nel 1274.



A Bonaventura dobbiamo molte cose. Fra queste l’opera speculativa mediante la quale egli preservò e consegnò alla tradizione l’immagine più fedele del Poverello di Assisi, del quale fu il settimo successore. Possiamo forse tutti, anche i più lontani, essere d’accordo nel dire che l’umanità senza Francesco sarebbe più povera spiritualmente. Eppure, proprio perché le persone più belle possono essere più facilmente deturpate da interpretazioni fallaci, esistono non poche ermeneutiche parziali o addirittura fuorvianti di san Francesco.



Proclamato, giustamente, patrono d’Italia negli anni trenta, egli fu da quello Zeitgeist proposto un po’ retoricamente come “il più santo degli italiani” e, soprattutto, “il più italiano dei santi”. Indiscutibile il valore dell’amor di patria, che per i medievali, comunque, era piuttosto amor di parte, o da tutt’altra sponda amore metanazionale, della Respublica omnium christifidelium, pur nel difficile equilibrio e coabitazione tra esigenze dell’Imperium e vocazione mistico-storico-reale del Corpus ecclesiale di Gesù. Certo non c’era spazio per il nazionalismo novecentesco, per – diciamo così – un Francesco nero.



D’altro canto è improponibile anche la lettura sunteggiabile nell’immagine d’un Francesco rosso, in corsa verso l’abbraccio a ogni povero lebbroso in nome di un rifiuto cataro dei beni materiali (creati, secondo i catari, non certo secondo Francesco, dall’iddio cattivo veterotestamentario – una specie di precorrimento borghese dell’età futura socialista; questa lettura secolarizzata di eresie pauperistiche medievali fu oggetto della riflessione di de Lubac nel suo giudizio sulla genesi di Hegel-Marx).

Nemmeno convince il Francesco verde, attento a non calpestare neppure i vermi (certo Francesco fu attento anche a questo, ma perché profeticamente di Gesù in Croce il Salmo 21 dice: “Non ho più figura di uomo, ma di verme”). Per Francesco il creato era il creato, non l’ambiente, e la terra era prima sorella, poi madre, come tutte le sorelle creature, dalle stelle clarite alla morte corporale. Straordinario realismo, organico e plastico, quando le cose non erano definite in ragione delle loro misure (per esempio: terza dal sole, invece di terra vera, ove amori e odi generano turgidamente vita, morte, Caino e Abele, giustizia e peccato, filosofia e commercio, poesia e scienza deposta nel grembo dell’intelletto del mistero umano).

Francesco non è assimilabile neppure al Francesco arcobaleno della pace qualsiasi, pace che invece non è autentica se non è fondata sulla giustizia, e può recedere a mera concordia, necessaria anche ai ladri per organizzare bene il colpo (questo esempio è di Tommaso d’Aquino; Chesterton diceva che occorrerebbe provare a conoscere Dio come Tommaso e ad amarlo come Francesco).

Bonaventura non salvò il Poverello da queste più recenti, ohimè, ermeneutiche, ma da quella forse più pericolosa, quella del Francesco bianco. Vediamo un po’. Non Gioacchino da Fiore, sant’uomo, ma alcuni suoi seguaci proponevano una coincidenza tra Francesco e l’incarnazione in corpo evanescente e sottile [!] dello Spirito Santo [!]. La Trinità veniva da loro appiattita orizzontalmente, in coincidenza con la storia: età del Padre cattivo, poi del buon Figlio, infine dell’ottimo Spirito (ed eccoci all’anticipo inconsapevole della tesi-antitesi-sintesi).

I francescani ai tempi di Bonaventura erano numerosissimi. Bonaventura era al bivio: svendere la vera santità cristiana del Poverello, facendone una mostruosità ereticale, nemica della buona carne creata e redenta (e magari, così, aumentare i rendimenti); oppure serrarsi in una conventuale interpretazione, ortodossa, sì, ma non capace di evidenziare l’originalità di Francesco. Lo Spirito Santo vero gli suggerì una terza via.

Tutto ciò è stato ottimamente studiato da Joseph Ratzinger nel suo saggio sulla teologia della storia del Dottore Serafico degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Bonaventura assume la teologia della storia di Agostino. Cristo è insieme il giorno 1, Luce eterna e Parola del Padre, e il giorno 7, l’Incarnato tra noi: in mezzo è tutto il creato. Cristo riporta tutto a suo Padre (giorno 8), che sarà – come proclama Paolo – tutto in tutti. Perciò nessun superamento spiritualista di Cristo è possibile.

Perché? Perché Dio, il Padre, esiste eternamente come un Atto di Generazione perfetta ed amorevole, senza bisogno di un organo riproduttore (Balthasar). Egli è non il falso Essente Super, ma il semplice Principio di Vita. Dio non è un competitore, un’altra squadra di calcio: Egli è, per ogni calciatore, il Calcio stesso. È, come per Bach, Mozart, Beethoven, la Musica ipsa (metafora molto tomista). Bonaventura insegna: “In Dio l’essere e il dar principio è lo stesso. Perfetto è l’essere, perfetto è il principiare. Perciò perfetto è il Principiato” (De Mysterio Trinitatis, q. VIII). Il Principiato perfetto è, logicamente, unico; inoltre non è solo un logos-concetto (Dio non è un angelo) e nemmeno è un figlio frutto di vita biologica (Dio non è un ente mondano). Rimane che il Principiato sia il Logos-Figlio, il tenero Figlio, il divinamente fragile Figlio.

Non dunque innumerabili maestri e cammini fuoriuscenti da una Mente da orologiaio o da una Biblioteca babelica (non siamo nella religione del libro). Invece: soltanto l’unico Abbà generante l’unico Yoshuà (noi in Lui) – come grida Ruah, lo Spirito, il Condiletto in lingua bonaventuriana -. Solo questo è Iddio: la Cifra originaria della Vita, che è appunto, perdersi e ritrovarsi nella Generazione, al livello della zoé, cioè sopra e dentro, non contro, i limiti del bios.

L’Unigenito non è superabile fuori, dunque, come vorrebbero le diverse gnosi o religiose o secolarizzate (da Marcione allo Pseudofrancescanesimo all’abuso di AI); però dentro di Lui molteplici membra sorelle prolungano la Sua vera carne. Eccoci all’intuizione geniale di Bonaventura, che entro il giorno 7 inserisce il 3 gioachimita. Nel 7 di Gesù c’è l’ora preparatoria ebrea, poi l’ora centrale del suo Vivere e Morire fra noi, quindi l’ora ecclesiale del Risorto. In questa ultima ora i Monaci risultano icone del Gesù lavoratore a Nazaret, i Mendicanti del Gesù itinerante e maestro, Francesco stimmatizzato e sursumattivo (oltre azione e contemplazione) è immagine embrionale del tempo in cui la Chiesa è chiamata più da vicino ad assomigliare per amore a Gesù Crocefisso e Risorto. L’originalità del Poverello è salvata da Bonaventura, senza sconti all’eresia (e senza cupi conservatorismi).

Assomigliare per amore: il vero Francesco, recato da Bonaventura, è il Francesco marrone, perché il suo simbolo – noto – è l’incrocio di due Braccia, una nuda e stimmatizzata nella mano, l’altra rivestita di saio marrone e parimenti stimmatizzata nella mano. Amore fisico per Gesù Cristo. Cioè amore per il Figlio-del-Padre. Cioè – a pensarci – amore per la Vita, per l’essere profondo e qualitativo delle cose. Nient’altro. La Vita che affascina il laico – giustamente ostile ad essenti supremi -, che però della Vita conosce appena, forse, le spalle, e fortunatamente non riesce ad imporsi di non desiderare di vederne il Volto.

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