Aristotele scrive nella Politica (VI, 2, 40): “Base della costituzione democratica è la libertà, così si è soliti dire, quasi che in questa costituzione gli uomini partecipino di libertà, perché è questo, dicono, il fine di ogni democrazia”.

Il termine greco usato da Aristotele è eleutheria, un termine che nel mondo greco indica l’uomo nella sua piena condizione di cittadino, rappresenta il modo in cui il soggetto è partecipe della città. Significa appartenenza a una comunità, è la libertà che garantisce lo status sociale, i diritti e i doveri. Solo chi è pienamente libero può agire nella città, in questo senso ha un valore fondamentalmente politico perché tocca il funzionamento stesso della polis.



Un concetto importante per la storia culturale dell’Occidente, con un lungo percorso che arriva fino alle distinzioni contemporanee di Isaiah Berlin fra libertà positiva e negativa. Un’idea che però non si sovrappone del tutto alla “libertà” della tradizione ebraica e cristiana. Si tratta di concetti che sono convissuti, spesso entrando in contrasto, costituendo l’identità che caratterizza l’occidente cristiano come mescolanza fra tradizione greca e mondo ebraico.



Nella Bibbia ebraica non troviamo un concetto che corrisponda perfettamente a quello di eleutheria. Il più vicino è dror (Levitico 25,10), che è la libertà degli schiavi e viene data nell’anno giubilare. Chofesh/chofshi (Giobbe, 3,19; Isaia 58, 6) indica il momento in cui uno schiavo viene liberato dalla schiavitù e dunque nessuno può più dargli ordini. Esiste anche il termine hebed, “schiavo”, che oltre al valore letterale può assumere un significato metaforico in senso spirituale. Dunque nell’Antico Testamento il significato più vicino a quello che intendiamo come libertà rimanda al riscatto da una condizione di schiavitù.



Nel Nuovo Testamento il termine libertà è abbastanza raro. Ad esempio nei Vangeli il termine eleutheria o eleutherosis non compare, mentre troviamo tre volte l’aggettivo eleutheros (Matteo 17; Giovanni 8,33 e 8,36) quando la libertà di Cristo viene opposta alla vecchia legge mosaica. Si tratta di una scarsezza di attestazioni che testimonia un diverso interesse rispetto al mondo greco e che riguarda piuttosto il tema della salvezza annunciata dai Vangeli.

È però san Paolo colui che presterà particolare attenzione al concetto: eleutheros è presente 16 volte nelle sue lettere, eleutheria sei volte, eleuthero cinque. La libertà per Paolo non è una ideologia ma un’esperienza. Si pratica nel rapporto concreto di Carità. Non è una libertà di fare qualcosa ma una libertà da qualcosa, dai nostri limiti, una libertà per l’agape.

La libertà in questo senso è la possibilità di realizzare pienamente la propria umanità. Si tratta di un principio che non vuole essere individualista né utilitarista e che rifiuta ogni tipo di moralismo. Dunque libertà non significa autonomia incondizionata, il lasciarsi andare a ciò che riteniamo essere il nostro desiderio. Un desiderio che ingannevolmente ci appare come qualcosa di nostro ma che in realtà ci vincola a ciò che è esterno a noi e che costituisce la vera schiavitù. Qui il testo fondamentale è Galati 5, 13-14. “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso”. “Chiamati alla libertà”: si tratta di una vocazione che si attua nell’esperienza della relazione con Dio. Chi rimane legato alla carne è schiavo e in fondo destinato alla morte. Se dunque una schiavitù è permessa, è solo quella dell’agape perché ciò che avviene per amore non può che essere frutto di libertà.

Le contraddizioni fra mondo greco e cristianesimo rispetto al concetto di libertà le troviamo in sant’Agostino, colui che riscriverà la tradizione neoplatonica introducendo gli strumenti linguistici e logici che saranno adottati dal cristianesimo. E proprio sul concetto di libertà il problema linguistico-concettuale si farà particolarmente delicato dovendo far dialogare il mondo classico con l’insegnamento neotestamentario. Il concetto di “arbitrio” non può bastare per parlare di libertà ma ha bisogno di un “arbitrium liberum… sed non liberatum” (De correptione et gratia, XIII, 42), che per mezzo della grazia divina può essere liberato e diventare concreta esperienza di libertà compiendo così il destino di ognuno di noi. Il compimento totale di sé, questa è la libertà – dirà Luigi Giussani nel suo Senso religioso -. La libertà è per l’uomo la possibilità, la capacità, la responsabilità di compiersi cioè di raggiungere il proprio destino. La libertà è il paragone con il destino: è questa aspirazione totale del destino. Così la libertà è l’esperienza della verità di se stessi”.