Con La spia celeste (RaiLibri, 2022), Cristoforo Gorno, autore e conduttore televisivo di successo, mette mano a raccontare una storia alternativa che vede come protagonista Saulo, ovvero san Paolo, l’Apostolo delle Genti. Il romanzo si apre nell’inverno del 35 d.C., a Capri, da dove Tiberio, nell’esilio dorato che si è scelto nella più incantevole isola dell’Impero, discute con Lucio Vitellio, futuro legato nella regione della Siria. Parlando delle questioni che interessano i sempre delicati equilibri dell’Oriente, Tiberio sposta il discorso su Ponzio Pilato, il governatore dell’irrequieta provincia della Giudea, che il princeps vuole rimuovere dal suo incarico.



In particolare, la morte di quel predicatore itinerante e agitatore di nome Gesù ha creato non poco scompiglio in quella già surriscaldata regione; per cui, arrivato in Oriente, Vitellio affiderà all’amico, il legato Marcello, l’incarico di trovare un individuo sufficientemente intelligente e astuto che possa controllare e riferire alle autorità romane le evoluzioni interne al sempre meno comprensibile fronte delle mille beghe religiose e spaccature che si creano nell’ambito del popolo ebraico, affinché l’autorità di Roma resti salda e nessuno la metta mai in dubbio.



Ed ecco che Marcello individua la persona giusta da reclutare: un ebreo di Tarso, in Cilicia, proveniente da una famiglia di farisei, e che ostenta, pur senza prove certe e inequivocabili, di essere cittadino romano, civis romanus (un titolo che, all’epoca, faceva davvero la differenza); l’uomo, che ha colpito il legato Marcello con la sua intelligenza fuori dal comune, parla latino, greco, aramaico ed ebraico, e si chiama Saulo.

Marcello, dato che Saulo afferma di aver perso i documenti che attesterebbero il possesso della cittadinanza romana, gliene fornisce altri, dove, per semplicità, egli verrà indicato col romanissimo nome di Paolo. Marcello sa bene che quando “quell’invasato di Stefano è stato ucciso a sassate” Saulo non ha partecipato attivamente al massacro, ma, essendo stato presente e avendo retto i mantelli degli assassini, ha dimostrato loro complicità e sostegno. E allora, ecco l’incarico, importantissimo e delicato, che il legato affida a Saulo-Paolo: “Il pugno duro di Vitellio non è servito; allora Vitellio, in accordo con Tiberio Cesare, ha preferito una via più morbida (…). Una ribellione, una volta scoppiata, non può che essere repressa, se la si anticipa ci si fa meno male. Ma, al di là delle informazioni che potrai darci, c’è un compito ancora più importante che ti affidiamo: fino a oggi l’atteggiamento degli Ebrei verso Roma è stato odio rabbioso o accettazione rassegnata di compromessi mal sopportati. Vorremmo che quei giorni finissero, che si facessero passi avanti, che si cominciasse a parlare di pace, di alleanza, di vantaggio reciproco, e che a farlo fosse un ebreo”.



Quella di Paolo è dunque una missione delicata e sottile: una missione da autentica spia, degna del miglior romanzo di Le Carré. Ma imprevedibilmente accade, per uno scherzo benevolo della sorte, quello che nessuno, nemmeno Paolo, avrebbe mai immaginato: la sua missione diventa qualcosa in cui egli crede fortemente, in prima persona, con tutto il suo animo e il suo cuore, perché, come ci mostra Gorno, a un certo punto la sua conversione alla dottrina di Gesù non è più esteriore e strumentale, ma diventa autentica e vera, totalizzante e profonda; e la missione di Paolo può così proseguire, ispirata dalla convinzione che la neonata religione e l’Impero possano reciprocamente avvantaggiarsi: grazie alla pace e alla prosperità di quella immensa entità politica che è l’Impero romano, infatti, il messaggio cristiano si  potrà diffondere ovunque; e, del resto, le strutture dello Stato romano non potranno che trarre vantaggio dalla crescente presenza di adepti di una religione pacifica, fondata da Colui che disse esplicitamente: “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”.

Il romanzo di Gorno ripercorre così, seguendo il filo conduttore della storia narrata negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di Paolo, le peregrinazioni di quest’ultimo, i suoi viaggi di evangelizzazione, i periodi detenzione, la lotta contro gli dèi pagani, e, in particolare, contro le dee, che riscuotono dai semplici fedeli ammirazione, reverenza e invocazioni in ogni momento delicato della vita, soprattutto contro l’Artemide di Efeso: per contrastare questi culti, il finissimo cervello di Paolo individuerà la necessità di trovare e proporre all’attenzione dei fedeli una figura materna verso la quale indirizzare la devozione, la tenerezza, le preghiere dei nuovi fedeli.

La spia celeste si conclude a Roma, con il dialogo fra Paolo e Pietro: i due discutono sulla necessità, dato l’allargamento della comunità romana, di darle un vescovo, e Pietro propone a Paolo di rivestire l’incarico. Ma quest’ultimo declina l’offerta: “No (…) La mia missione è di essere l’apostolo delle genti; non voglio legarmi a una chiesa, ma rivolgermi a tutte; tu devi assumere la carica: tu sarai, anzi, di fatto sei già il vescovo di Roma”. E Pietro accetta.

Il romanzo stermina così con la riflessione di Paolo, ormai il più convinto e fervente dei cristiani, che pensa così: “La presenza di Pietro nella città dei Cesari, l’esserci riuniti, lui e io, a distanza di tanti anni, non può essere un caso, piuttosto un segno della provvidenza, una conferma della mia visione: dalle fondamenta gettate in oriente è a Roma che verrà innalzato il tempio dedicato alla nuova alleanza”. Mai profezia fu più azzeccata.

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