L’ottantesimo della Liberazione coincide anche con l’ottantesimo di fatti “scabrosi” – omessi nei principali libri sulla storia Resistenza – come la strage di Porzûs.
A fare luce sulle ragioni e lo svolgimento della vicenda è dedicato il nuovo libro di Tommaso Piffer, Sangue sulla Resistenza. Storia dell’eccidio di Porzûs (Mondadori, 2025). Le vittime di questo massacro erano della Brigata Osoppo: partigiani azionisti e cattolici che non volevano sottomettersi ai militari di Tito accettando il possesso jugoslavo dei territori italiani e che per questo nel febbraio 1945 furono assaliti e uccisi da una banda di comunisti italiani dei Gap (Gruppi di azione patriottica).
È una vicenda che costringe a fare i conti con le criticità del pluralismo del movimento di liberazione nazionale. Prevalente ancora oggi è l’interpretazione data da Claudio Pavone nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza del 1991. secondo Pavone ci sono “tre aspetti che hanno convissuto negli stessi soggetti individuali o collettivi”: lotta patriottica per l’indipendenza, lotta democratica per la libertà, lotta di classe per il rinnovamento sociale.
Tommaso Piffer ci porta invece – come già aveva delineato nel suo precedente Il fronte segreto (Mondadori, 2024) dedicato al rapporto tra gli Alleati e la Resistenza – a una lettura non parallela, ma conflittuale. Proprio sulla questione del confine Orientale ed in particolare nel comportamento del partito comunista vengono alla luce non tre “aspetti”, ma tre “fratture”: a quella tra fascismo e antifascismo si aggiungono in seno alle formazioni partigiane quella determinata dalla competizione tra italiani e sloveni per il possesso del territorio e quindi quella tra comunismo e anticomunismo.
Un groviglio che nasce essenzialmente dal fatto che i comunisti conducono una sorta di “Resistenza” non patriottica, ma “internazionalista”, che privilegia cioè l’espansione dell’area filosovietica e che punta non solo al crollo dei nazifascisti, ma alla conquista del potere.
È illuminante in proposito quanto affermava Stalin in quel periodo – il 28 gennaio 1945 – in una riunione a cui partecipavano anche gli jugoslavi (riportata dal leader bulgaro Dimitrov nel suo Diario edito da Einaudi nel 2002): “La crisi del capitalismo si è espressa nella divisione dei capitalisti in due frazioni: una fascista e l’altra democratica. Noi adesso stiamo con una frazione contro l’altra, ma nel futuro saremo anche contro questa frazione dei capitalisti”.
Parole che collimano con quanto annotò sempre nel 1945 un altro dirigente jugoslavo, Gilas, a cui Stalin spiegò: “Questa guerra non è come nel passato; chi occupa un territorio impone anche il proprio sistema sociale. Ognuno impone il proprio sistema nella misura in cui il suo esercito ha il potere di farlo”.
È in questo contesto che si produce la tragedia di Porzûs. E cioè siamo di fronte alla “guerra civile” in seno all’antifascismo. Fatto accaduto già durante la guerra civile in Spagna, quando nel maggio 1937 i comunisti con un colpo di Stato destituirono il capo del governo repubblicano (contro cui si era ribellato Francisco Franco), il socialista Largo Caballero, con un loro uomo di fiducia, il ministro delle Finanze Juan Negrín. Largo Caballero si era rifiutato di sciogliere il partito dei comunisti antistalinisti (il Poum) mentre con Negrín si procedette all’uccisione di anarchici e trotzkisti.
Anche durante la Resistenza vi furono altri episodi di “guerra civile” tra partigiani promossa dai comunisti che additavano come fascisti le brigate che manifestavano idee anticomuniste. Clamoroso l’attacco del rappresentante comunista, Giancarlo Pajetta, in seno al Cln del Piemonte contro le brigate guidate da Mauri (il maggiore Enrico Martini) che contavano circa 10mila partigiani su un totale all’epoca di 50mila. “È ben nota la fobia anticomunista del Mauri” inveisce Pajetta. Per i comunisti il militare “si pone automaticamente dall’altra parte, cioè dalla parte dei nemici del popolo italiano, come un camuffato provocatore fascista”. Seguiranno scontri a fuoco: i partigiani di Mauri mentre sono impegnati contro i nazifascisti vengono assaliti dalla XVI Brigata Garibaldi subendo diversi feriti.
Proprio in quel periodo De Gasperi esprime la sua preoccupazione a Sturzo. “Fin d’ora – gli scrive il 12 novembre 1944 – la tattica di penetrazione è da loro [i comunisti, ndr] perseguita con tenacia e con frutto. Ho l’impressione che sperino di conquistare una dittatura di fatto attraverso le forme democratiche”.
Attraverso le pagine di Piffer conosciamo come il cerchio si stringe progressivamente intorno ai partigiani della Osoppo, che sono in crescente conflitto con i comunisti organizzati nella Brigata Natisone.
La rivendicazione del possesso del territorio friulano è presentata ai comunisti italiani dal dirigente jugoslavo Kardelj come una scelta tra “socialismo o capitalismo”: “Se queste zone rimangono italiane finiranno sotto un regime capitalista imposto dagli Alleati”.
A metà ottobre 1944 Kardelj va a Roma da Togliatti e ne ottiene l’assenso sia all’annessione territoriale, sia all’inserimento dei partigiani nel IX Corpus dell’esercito jugoslavo. Il 19 ottobre quindi il segretario del Partito comunista italiano indica il comportamento da tenere: “In tutti i modi dobbiamo favorire l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito. Questo significa che in questa regione non vi sarà un’occupazione inglese, né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana”. “Questa direttiva – prosegue Togliatti – vale anche e soprattutto per la città di Trieste”.
Quindi a fine novembre la Brigata Natisone passa sotto il IX Corpus, mentre la Osoppo rifiuta. All’inizio di dicembre il IX Corpus pertanto decide che la Osoppo va eliminata e in gennaio avviene la concentrazione di un centinaio di gappisti agli ordini di Giacca (Mario Toffanin) della Natisone presso le malghe di Porzûs nel comune di Faedis, dove c’è l’accampamento della Osoppo. Dal 7 febbraio inizia quindi la “caccia” ai partigiani azionisti e cattolici. Tra i primi a essere ucciso è il loro comandante, Bolla (Francesco De Gregori), del Partito d’Azione. La strage di Porzûs conterà 18 vittime. Si tenterà di ignorarle o di screditarle come complici dei fascisti.
A rendere “ufficialmente” omaggio con parole di verità sarà Giorgio Napolitano, che aveva partecipato alla Resistenza come comunista e ben conosceva quella tragedia. Come presidente della Repubblica nel maggio 2012 si recò nel municipio di Faedis dove esaltò “i patrioti della leggendaria Brigata partigiana Osoppo” e condannò “le radici di quell’eccidio in cui precipitarono, in un torbido groviglio, feroci ideologismi di una parte, con calcoli e pretese di dominio di una potenza straniera a danno dell’Italia”.
“A ottant’anni di distanza – avverte però Piffer – ci sono ancora molte cose che non sappiamo dell’eccidio di Porzûs. Innanzitutto, sui responsabili”.
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