In questi ultimi anni si è molto parlato della satira, del suo ruolo, dei suoi limiti. Talvolta è rude e pungente, qualche volta è ruffiana e stupida. Avendo recentemente scritto un saggio sul significato del ridere (Laughter: A signal of ceased alarm toward a perceived incongruity between life and stiffness, 2022), sottolineo dei punti basilari, perché la satira deve travalicare le frontiere del politicamente corretto, ma non quelle dell’umorismo.
Cosa fa ridere? Dall’analisi degli studi sull’umorismo, la risposta è semplice. Fa ridere quello che ci spiazza. Basta questo? No, perché ci fa ridere quello che ci spiazza ad una condizione: lo spiazzamento deve essere quello di trovare qualcosa di morto dentro qualcosa che dovrebbe essere vita. Ma c’è una seconda condizione: che subito capiamo che quello che sembrava morto nella vita è in realtà innocuo, non fa male, non sanguina. Nel mio saggio ho esaminato questi tre stadi che, se ci pensate bene, ritroviamo in tutti i fenomeni comici, da Plauto ai Simpson.
Maestro di questo fu Pirandello nel suo saggio L’umorismo (1908), nel quale fa l’esempio di una anziana signora tutta agghindata con evidente eccesso per sembrare una ragazzina e invece (ecco l’accostamento con la non-vita) sembra uno spaventapasseri, o un pappagallo. Ma, continua Pirandello, se sapessimo che quella signora si è così imbellettata per non perdere un rapporto affettivo col marito, per il suo cuore in lacrime che la porta a sembrare ridicola, non ci verrebbe da ridere.
Nel mio saggio, basato su centinaia di studi di autori internazionali, spiegavo che il riso è una sorta di sirena di cessato allarme verso il terrore che suscita in noi il dirompere del meccanico/morto nella vita, sirena preservata dall’evoluzione nei millenni, tanto che la rivista francese Epsiloon titolava a proposito delle mie ricerche “il riso viene dalla paura” e quella inglese The Conversation “Ragioni evolutive alla base del ridere”.
La satira è questo “saturare” (da qui viene il nome), cioè infarcire come un tacchino arrosto un corpo vivo, in modo che appaia un peso morto; o, detto in altri termini, è “caricaturare” (cioè caricare) un peso morto su un corpo vivo. Per il disegnatore sarà allungare un naso in modo che sembri una carota o gli orecchi per farli sembrare due antenne paraboliche. Per il comico sarà accentuare un vizio, un difetto, un tic, o una promessa di un politico, una sua boutade, rendendola estrema, ingombrante, morta. Ma poi, colpo di scena! il peso morto si rivela innocuo e riprende a vivere! Ma intanto ha destato un attimo di ansia e poi un’esplosione di catarsi.
Dunque l’umorista carica, e per caricare non può e non deve fermarsi a quello che è politicamente corretto, come se ci fossero argomenti di cui non bisogna parlare. Oggi sembra che per la satira ci siano tabù, e questi tabù sono sempre più numerosi e riguardano i diritti civili, mai i diritti sociali. Invece la satira non ha limiti, perché è un riflesso istintivo associare un uomo borioso ad un suo difetto e riderne. Ma ad una condizione. Perché un limite c’è. La satira deve far ridere. E per ridere è necessaria la seconda condizione che dicevo prima: non colpire una persona che già è a terra. Se si vuole scherzare sulla bassa statura, o su altri limiti umani, occorre agire alleati dell’autoironia di chi ha quel limite. Altrimenti facciamo soffrire. E non facciamo ridere. Altrimenti la satira diventa sarcasmo, invece di ironia. Il sarcasmo è letteralmente “mordere la carne” cioè “accanirsi” (parola che viene dal nome cane). E si rifà ad un concetto aristotelico ma anche nietzschiano di comicità legato al senso di superiorità sull’altro. Al senso di sadismo, che certo scatena la risata malevola, ma non è umorismo. A volte i media accolgono attori sarcastici che ostentano superiorità (che al 90% è solo ansia da inferiorità) e sparano offese invece che comicità. La riflessione della psicologia e della filosofia non li riconosce come satirici, ma come bisognosi di palcoscenico, come legati ad affermare parole d’ordine o ordini di scuderia. In altre parole, fanno ridere, sì, ma come oggetti e non soggetti di comicità; non per quel che additano, ma per essere divenuti loro delle maschere rigide.
Invece l’umorismo mette di fronte al pubblico, ingigantendoli, il peso della malattia, della follia, delle anomalie, dei tic, delle ambizioni, delle smanie di potere che imbrigliano la vita nella rigidità e negli stereotipi. E le colma di ironia. Il sarcasmo non fa ridere. L’ironia sì. Il sarcasmo è dire “Governo ladro!”; l’ironia è dire “Piove, governo ladro!”, che è anche più pungente. L’umorismo è irrorare di ironia le aspettative assolute degli altri: dalla paura del politico di non essere rieletto o di non essere tutti i giorni sul giornale, a quella del poeta che teme come fallimento cosmico un errore di stampa nella sua ultima raccolta di poesie. Il riso è un’arma potente per rimettere le cose al loro posto; ma anche per noi stessi, per non attaccarci a qualcosa o qualcuno come se la nostra dignità o la nostra vita non reggessero senza di esso.
Non c’è cosa più distante dal ridere che il deridere. La satira è l’anima del mondo, perché porta allo scoperto le nostre paure che la satira “carica” o “satura”, ma poi ci fa riflettere e ci rassicura facendoci fare una bella risata. Noi ridiamo, ma la satira ha ottenuto il suo scopo politico: mostrare che il re è nudo, qualunque sia il re (fosse anche il nostro io).
Quindi viva la satira; datecene tanta, cruda, tagliente, che metta in luce quello che di morto portiamo dentro; spogliate la politica della sua tracotanza, il ricco del suo narcisismo, le parole tabù della loro inviolabilità. Fateci ridere e riflettere.
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