Ricorre il centenario della nascita di padre Aleksandr Schmemann (1921-1983), uno dei più grandi teologi ortodossi russi della seconda metà del XX secolo, nato e vissuto nell’emigrazione (dapprima in Francia e poi negli Usa), la cui eredità si dimostra oggi più che mai vitale.
Di Schmemann il lettore italiano conosce già una serie di opere dedicate alla liturgia, a cui oggi si aggiungono i suoi Diari, usciti presso le edizioni Lipa-La Casa di Matriona: un testo drammatico, spesso provocatorio (non erano destinati alla pubblicazione), che abbraccia l’ultimo decennio di vita di padre Aleksandr e ne mostra il profondo radicamento nella Tradizione, l’intensa esperienza di fede ma nel contempo anche la lucida, impietosa analisi delle riduzioni e falsificazioni cui viene sottoposto il cristianesimo nella società contemporanea, ad opera di una mentalità mondana da cui non vanno esenti gli stessi cristiani. Non è un caso che la loro pubblicazione in Russia, nel 2005, abbia costituito un “segno di contraddizione”, avviando una vasta discussione sul significato dell’Ortodossia, la vita della Chiesa e le sue prospettive nella civiltà odierna, aprendo interrogativi tutt’altro che scontati sulle prospettive di rinnovamento della vita ecclesiale e della testimonianza nella Chiesa nel mondo.
I Diari ripropongono infatti, in chiave personalissima, il contributo più prezioso offerto da Schmemann, e cioè l’invito a riscoprire nel mistero liturgico il principio trasfigurante di tutta la realtà. Brevi e penetranti annotazioni sui misteri centrali della fede, sulle feste liturgiche, si intrecciano nei suoi appunti con acute osservazioni sulla realtà contemporanea, sulla politica, l’arte e la bellezza, riportandoci continuamente alla vocazione dell’uomo: la comunione con Dio, che trasfigura e accende di eternità ogni istante del quotidiano.
Nato in Estonia, in una famiglia russa con ascendenti tedeschi che ben presto emigra in Francia a causa degli eventi rivoluzionari, Schmemann trascorre a Parigi la giovinezza nel complesso mondo dell’emigrazione russa, sviluppando la viva percezione che la Russia è parte integrante della cultura, della cristianità europea. Non è una sparuta comunità di emigrati dispersa nella metropoli parigina, quella in cui vive: fin dall’inizio – come scrive nei Diari – la Chiesa gli viene incontro come universalità, come l’“esperienza del mondo e della vita alla luce del Regno di Dio, che si manifesta attraverso tutto ciò che costituisce il mondo: colori, suoni, movimento, tempo, spazio, vale a dire la concretezza e non l’astrattezza”; come la “presenza in questo mondo di qualcosa di completamente, assolutamente diverso, ma che poi in qualche modo illumina tutto il resto, e a cui in qualche modo tutto si riferisce, la Chiesa come Regno di Dio in mezzo a noi e dentro di noi”.
Il periodo della seconda guerra mondiale e dell’occupazione tedesca della Francia è decisivo per la sua scelta di vita. Proprio in quegli anni studia all’Istituto di Teologia Saint–Serge, dove insegnano i più grandi filosofi e teologi dell’emigrazione russa; molto importanti nella sua formazione sono le letture di autori come Péguy, Claudel, Bloy, e i contatti con teologi cattolici tra cui Jean Danielou, Louis Bouyer e altri ancora, sostenitori della necessità di un ritorno alle fonti patristiche e di un rinnovamento liturgico. Nel 1951 Schmemann si trasferisce insieme alla famiglia a New York per insegnare al seminario teologico ortodosso San Vladimir, dove ricoprirà dal 1962 fino alla morte la carica di decano. Gli ultimi trent’anni della sua vita saranno completamente dedicati all’insegnamento e al ministero sacerdotale.
La figura e l’opera di padre Schmemann non si lasciano confinare in un ambito circoscritto, sia esso quello dell’emigrazione russa, dell’ortodossia americana o del mondo accademico. Leggendo i suoi Diari, le sue opere sulla liturgia o le conversazioni radiofoniche settimanali che attraverso Radio Liberty varcavano la cortina di ferro, lo vediamo proteso all’uomo, all’umanità intera, altrettanto preoccupato delle persecuzioni materiali che infieriscono contro la religione in Urss come delle riduzioni e falsificazioni – indolori ma non per questo meno pericolose – cui il cristianesimo viene sottoposto nella società occidentale.
La sua concezione, radicata nel Mistero eucaristico, non ha paura di misurarsi con la drammatica realtà del proprio male e dei mali della Chiesa, dal momento che parte sempre da un’esperienza di pienezza, di comunione con una Presenza più forte di ogni assenza, in primo luogo l’assenza dell’uomo di fronte a se stesso, alla propria coscienza. Leggiamo, nei Diari: “Sono autentiche e necessarie solo le parole che non si limitano a parlare della realtà (‘discussione’), ma che sono esse stesse realtà: simbolo, presenza, epifania, sacramento. La Parola di Dio. La preghiera. L’arte. Un tempo anche la teologia era fra queste parole… ma si è lasciata irretire dal piatto di lenticchie delle discussioni, ha voluto darsi una veste scientifica – e così si è ridotta a vuote chiacchiere. Ha cominciato a presumere di sé – e così si è resa necessaria solo ai chiacchieroni e non all’uomo, alla profondità della cultura umana… Che cos’è la preghiera? Far memoria di Dio, avvertire la Sua presenza. È la gioia di questa presenza. Sempre, ovunque, in tutto”.
La stessa Presenza che gli fa dire con commozione, pochi giorni dopo aver scritto alcune note desolate sulla situazione del seminario (“Ieri è scoppiato uno scandalo in seminario. In un primo tempo ho provato rabbia, quasi furore… Che senso di totale impotenza, di impossibilità a cambiare qualcosa, pur essendo decano!..”), celebrando la liturgia in un paese di provincia: “…Mi sono sentito un nodo alla gola di fronte a quel coro raccogliticcio fatto da due–tre studenti e qualche ragazza. La sensazione, anzi la certezza: l’uomo è capax Dei”.
Ciò che emerge e avvince nei Diari è la breccia continuamente aperta dalla memoria nella dimensione dell’eternità, vale a dire l’esperienza dell’irrompere della grazia, della presenza di un Altro nella quotidianità, a rendere possibile una cultura autentica. Schmemann ritorna continuamente al tema della “vita vivente”. Una vita intesa come lavoro per “trasformare il chronos in kairos, cioè il tempo quotidiano nel tempo di Dio, e quindi per riempire di vita la vita”. Una vita non intesa semplicemente come “esistenza quotidiana”, ma come un lavoro di conversione, di passaggio a un altro livello dell’esistere: “Il terribile errore dell’uomo contemporaneo è identificare la vita con la propria attività, pensieri ecc., e non essere quasi per nulla capace di vivere, cioè di sentire, percepire, ‘vivere’ la vita come dono incondizionato… Percorrendo le strade di Galilea Cristo si perdeva forse in disquisizioni con i suoi Dodici? Si preoccupava forse di risolvere i loro ‘problemi’ e ‘difficoltà’? Oppure condivideva con essi, semplicemente la vita? Il cristianesimo, in ultima analisi, altro non è che il proseguire di questa comunione, la sua realtà, gioia e realizzazione. ‘È bello per noi stare qui’ (Mt 17,4)”.
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