Che certi temi o certe prospettive culturali e filosofiche non siano più all’ordine del giorno non significa necessariamente che gli argomenti su cui si basano siano stati confutati. Può significare semplicemente che per motivi di vario genere, che potremmo riassumere con la parola “moda” o “politically correct”, si preferisce non parlarne. Questa è una verità da tenere sempre ben presente e che vale a maggior ragione oggi anche a motivo del potere condizionante dei mezzi di comunicazione di massa.
Due temi classici e decisivi per capire molti aspetti della vita umana non sembrano essere per lo più all’ordine del giorno. Eppure essi sono fondamentali. A volte mi chiedo addirittura quanti studenti di filosofia delle università siano vivamente-drammaticamente consapevoli della loro centralità. Anche perché spesso non vengono esplicitamente affrontati da parte dei loro maestri.
Si tratta, in primo luogo, dell’ineludibilità della dimensione metafisica. Anche non occuparsi di metafisica richiede un’opzione metafisica. Il fatto di occuparsi di aspetti particolari della filosofia, di “filosofie di” (come le etiche applicate) come si fa spesso oggi non significa che non ci sia sempre alla base un’opzione di senso riguardante l’intero dell’essere. Di questo bisognerebbe essere maggiormente consapevoli. Filosofie del Novecento come l’esistenzialismo o il neopositivismo vivono di un’opzione di fede. Quella cristiana è solo una di queste. Ma tutte le posizioni filosofiche risentono di un’opzione di senso.
In un recente volume (G. Messinese, Il filosofo e la fede. Il cristianesimo moderno di Gustavo Bontadini, Vita e Pensiero 2022) si cita un’espressione del metafisico milanese: “Pur registrando che in questo stare all’esperienza da parte del neopositivismo, l’atteggiamento che porta al di là è da esso qualificato negativamente come puramente emotivo, è altrettanto vero che un’analoga carica emotiva è presente nello stesso atteggiamento del neopositivista: essa consiste nell’attaccamento all’al di qua, cioè a quanto egli ritiene che sia il contenuto teoretico pienamente valido” p. 128). Anche chi volesse essere fedele solo alla terra e attenersi solo alla scienza compie di fatto, pur sempre, un’opzione metafisica.
Se oggi la tematica metafisica o della totalità e di Dio non è posta a tema, ciò si deve probabilmente a fattori come l’inerzia esercitata da un certo scientismo sul piano divulgativo nonostante il fatto che sul piano filosofico in senso stretto esso sia stato ridimensionato o confutato (si veda, per esempio, Mario De Caro, Realtà, Boringhieri 2020). Già Luigi Pareyson affermava: “la proposizione ‘non c’è altra forma di sapere che il sapere scientifico’ non è una proposizione scientifica, bensì una proposizione filosofica […] lo scientista o naturalista fa dunque della filosofia, ma lo fa senza saperlo, cioè fa della filosofia acritica e inconsapevole, insomma della cattiva filosofia” (Verità e interpretazione, Mursia 1971, p. 196).
Prima di argomentare il problema dell’esistenza di Dio o mostrarne semplicemente l’interesse per l’esistenza umana, occorre riconoscere che lo spazio vuoto lasciato libero “oltre la scienza” è sempre meno occupato in Occidente dagli stessi contenuti della fede cristiana, di cui si dà spesso una lettura morale e non metafisica, basata questa sulla centralità della creazione. Piuttosto esso sembrerebbe essere colmato da un vago monismo. Qualcuno ha notato che diversamente accadeva con il vecchio catechismo che partiva dalla domanda “Chi è Dio?” e che faceva maggiormente pensare anche i bambini in senso metafisico e teologico.
Il secondo contenuto che oggi non è per lo più posto a tema è dato dalla costitutiva apertura infinita del desiderio umano, proprio in forza di quella stessa dimensione metafisica della razionalità. La scienza, nonostante il suo enorme potere esplicativo, non è in grado di dare alcuna risposta alla domanda sul senso della vita. A motivo di quell’apertura infinita del desiderio si spiegano il tentativo di superare ogni limite dato e la ricorrente esperienza della delusione. Di qui l’esigenza di rapportarsi a un’altra soggettività umana aperta come noi all’infinito da cui essere riconosciuti (e di umanizzare perfino gli animali). Fino alla possibilità di aprirsi a una soggettività indefettibile e divina.
La sintesi di apertura della razionalità all’orizzonte dell’essere e di infinitudine del desiderio che valuta la nostra esperienza finita è data dalla domanda radicale di senso o senso religioso. E pensare che senza tale desiderio non solo sarebbe impossibile dare ragione dell’imponenza e bellezza di tanti edifici sacri che ci attorniano (la grande arte fin dagli Egizi e dai Sumeri ha un’origine religiosa), ma neppure sarebbe possibile assolutizzare tanti particolari dell’esistenza (come i miti e le “star” di ieri e di oggi). Fenomeni come la noia e la continua trasgressione di usi e costumi in nome del progresso non sarebbero comprensibili altrimenti. E non si comprenderebbero neppure le ricorrenti tendenze a controllare il desiderio (dal buddismo allo stoicismo) che tornano continuamente di moda.
Non porre a tema esplicitamente il desiderio umano nella sua strutturale metafisica infinitudine significa, quindi, non solo rinunciare a comprendere l’uomo, ma non fare seriamente i conti con quella sorta di “mina vagante”, nascosta dentro la storia, che rischia continuamente di esplodere, tramutandosi spesso, come possiamo constatare oggi, in terribile e irragionevole violenza. Di fronte a cui sembriamo straniti e impotenti.
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