“Le bevande con un effetto deprimente – per esempio, l’acqua – dovrebbero essere prese a piccole dosi e solo per ragioni mediche” (Bevo dunque sono. Guida filosofica al vino, Cortina 2010). Senz’ombra di dubbio un raffinato humour inglese era una delle doti di sir Roger Scruton, beninteso non l’unica. Filosofo per formazione, il suo orizzonte intellettuale contemplava l’estetica, la musica, l’architettura, la concezione della persona e il rapporto dell’uomo con il sacro e il divino, la riflessione sulle radici perdute dell’identità inglese e della civiltà europea. Amante appassionato della campagna inglese, univa il trasporto per la natura e per gli animali alla pratica entusiastica della caccia alla volpe. Pur senza mai perdere il suo aplomb, è stato anche un vigoroso polemista, forse anche costretto a diventarlo dalla sua difficile condizione di “paria intellettuale”, sistematicamente ostracizzato dal mainstream culturale britannico (e non solo), per il quale ha rappresentato niente meno che una bestia nera.
Un importante e diffusissimo quotidiano italiano nel dare la notizia della sua morte, nel gennaio scorso, lo ricordava come “filosofo controverso”, onorandolo con l’aggettivo col quale, in epoca di relativismo totalitario, vengono sempre più comunemente stigmatizzati i dissidenti e gli uomini intellettualmente liberi. Impegnato a ritrovare i motivi profondi di quel pensiero conservatore intrinsecamente legato all’anima migliore della vecchia Inghilterra, Scruton è stato anche un cristiano che non si è sottratto alle sfide della modernità e un anglicano attratto dal cattolicesimo, estimatore di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI: di domenica lo si poteva vedere suonare l’organo nella piccola chiesa anglicana della campagna del Wiltshire che frequentava.
Per Scruton “il conservatorismo inglese ha le sue radici nel retaggio dei ceti alti, nel pacato buonsenso della vecchia costituzione e nelle abitudini senza pretese della gente comune che, nella vita di un Tory, sono un sostituto pratico della riflessione”: si trattava di un orizzonte nel quale il concetto di consuetudine aveva un significato del tutto particolare. In un contesto sociale, quello contemporaneo, nel quale consuetudini e tradizioni vengono messe in discussione in maniera sistematica, la visione conservatrice si propone allora la conservazione delle risorse comuni – a tutti i livelli – e la resistenza all’entropia sociale in tutte le sue forme, con lo scopo ultimo “di mantenere in essere (il più a lungo possibile) la vita e la salute di un organismo sociale”.
Una tale visione politico–culturale è antiglobalista per natura, dal momento che esalta lealtà storiche e identità locali. Sulla scorta di Edmund Burke e di T.S. Eliot, il conservatorismo si esplicita nella sua essenza più profonda in un patto tra le generazioni dei vivi, dei defunti e di chi deve ancora nascere, perché solo coloro che sanno ascoltare chi è venuto prima sapranno farsi carico delle generazioni future (Manifesto dei conservatori, Cortina 2007).
Negli anni Scruton ha saputo conciliare la sua prospettiva così tipicamente inglese e isolana con uno sguardo più ampio, affrontando temi con i quali si è confrontato fino alla fine dei suoi giorni: l’apostasia religiosa e culturale dell’Europa, la perdita di sovranità dei Paesi europei a vantaggio della burocrazia dell’Unione Europea, il rifiuto del retaggio culturale che ci è stato trasmesso dalle generazioni che ci hanno preceduto.
Nell’introduzione a una raccolta di suoi saggi pubblicata da Vita e Pensiero nel 2015 (La tradizione e il sacro) Scruton scriveva: “A Roma, dove ho soggiornato negli anni Sessanta, non sono riuscito a trovare un solo intellettuale italiano che non descrivesse se stesso come un rivoluzionario, un oppositore del capitalismo e della borghesia e un nemico giurato della famiglia, della magistratura e della Chiesa”. Ora a tutto ciò si è sostituito il nuovo dogmatismo della correttezza politica: “In tutta Europa gli intellettuali sembrano incapaci di accettare la propria eredità, rigettando il cristianesimo e le sue istituzioni come irrilevanti, voltando le spalle alla nazione e allo Stato e raccontandoci che, nel nuovo ordine globale, le tradizioni locali non contano nulla”.
In tutto ciò ha avuto un grande significato la concezione dello studio e del sapere, soprattutto dal momento in cui il curriculum tradizionale delle facoltà umanistiche ha cominciato a essere messo in discussione sotto la spinta del marxismo e delle nuove mode culturali progressiste. È emblematico il ricordo del tutor dell’allora giovane Roger, studente a Cambridge, il dottor Picken, caratteristico tipo umano e intellettuale che si poteva incontrare un tempo a Cambridge e a Oxford: “Il suo atteggiamento verso il sapere era l’esatto opposto di quello che ormai domina le scuole e le università di oggi. Non credeva che la conoscenza avesse lo scopo di aiutare gli studenti, ma l’esatto contrario: per lui erano gli studenti ad avere lo scopo di aiutare la conoscenza. Fu per tutta la vita il depositario, spontaneo e pronto all’autosacrificio, di un retaggio intellettuale. Vedeva gli studenti con scetticismo, ma sotto sotto sperava sempre di trovare in questa o quella faccia giovane e indisciplinata i segni esterni di un cervello abbastanza grande e appassionato da catturare qualcosa della conoscenza accumulata dal genere umano e capace di portarsi addosso questa conoscenza nella vita senza farla cadere a terra, fino a trovare un altro cervello in cui riversarla”. Di lì a poco dovevano arrivare lo strutturalismo, il decostruzionismo, il postmodernismo, destinati a mutare il panorama culturale con il loro “linguaggio pomposo e inintelligibile” e i contenuti violentemente ideologici occultati “sotto uno spesso e protettivo carapace di non senso” in modo tale da sottrarli al dibattito razionale. Paradossalmente si pretende che tutte le culture siano giudicate secondo un punto di vista intrinseco e, al tempo stesso, si esprime un inappellabile giudizio negativo su tutto quanto è stato elaborato dalla tradizione occidentale. Il relativismo finisce così per sottrarsi all’ambito razionale per divenire una sorta di teologia, con il suo corollario dogmatico tetragono a qualunque messa in discussione.
Contro questi fenomeni che sembrano aver preso ormai irrimediabilmente il sopravvento nel contesto politico e culturale dell’Occidente, Scruton, nel già citato testo del 2015, ci richiama a una verità per molti scomoda: le leggi, la fede, le istituzioni e la cultura cui apparteniamo e che ci sono state trasmesse dalle passate generazioni sono ciò che abbiamo di più prezioso e, se vogliamo dare ancora una speranza al nostro mondo, dobbiamo recuperare il lascito morale e religioso dell’unica civiltà che possediamo.
Nel 2016 il prof. Scruton è stato creato cavaliere e non si potrebbe dire chi poteva meritarlo più di questo perfetto gentleman che, nella sua attività intellettuale, nel suo modo di essere, nella sua esistenza intera, ha incarnato quanto di meglio la tradizione inglese ha saputo esprimere, vivendo nel suo tempo, ma al ritmo di valori inconciliabili col tetro nichilismo contemporaneo. Pur nella consapevolezza delle differenze che intercorrono tra i due studiosi inglesi, potrebbero adattarsi bene a Roger Scruton le parole di Clive Staples Lewis, il quale indicava in se stesso uno degli ultimi esemplari della vecchia cultura occidentale e un tipo umano antropologicamente differente, estraneo alla svolta postcristiana e tecnologica che stava trasformando il volto della civiltà europea: “Parlando non soltanto a titolo personale, ma per conto di tutti gli altri uomini del vecchio Occidente che vi potrà capitare di incontrare, vorrei dirvi: sfruttate i vostri esemplari finché potete. Non ci saranno molti altri dinosauri”.