Nel suo secondo romanzo dedicato a Mussolini, M. L’uomo della provvidenza, Antonio Scurati ci conduce per mano nelle pagine rimosse della storia italiana. Stiamo parlando degli anni in cui il fascismo si trasformò in una religione di Stato e gli italiani – praticamente tutti – diventarono fascisti, e furono felici di esserlo.
L’opposizione era completamente annientata, umiliata, ridicolizzata, espulsa dal paese. La cultura, la Confindustria, i generali e i nobili, il Re, addirittura il Papa con tutta la Chiesa, consideravano questo uomo, pur rozzo e violento, un gran lavoratore la cui vita era dedicata interamente al paese, l’uomo giusto che serviva per far rinascere l’Italia. Appunto, l’uomo della provvidenza. A definirlo così non fu un giornale qualunque o un fan dell’epoca, ma Papa Pio XI in persona, all’indomani della firma dei Patti lateranensi.
Scurati scruta questi anni così difficili da raccontare – siamo tra il gennaio del 1925 e il dicembre del 1932, anno X del fascismo – rivolgendo lo sguardo agli uomini nuovi che circondano il Duce. Al modo come lui li sceglie, li usa per sostituire i vecchi arnesi della prima ora, del fascismo violento e confuso, alla maestria con la quale li mette nei punti chiave del governo e del partito, e poi – senza provare alcun sentimento di riconoscenza – li getta via, quando spremuti come limoni, si accorgerà che non servono più.
È in questi anni che il fascismo diventa regime. In un parlamento ridotto ad un mero organo consultivo, Mussolini prende la pur fragile democrazia nata dallo Statuto Albertino e introdotta dai Savoia circa ottant’anni prima, e la getta letteralmente nel cestino. Sono gli anni in cui si costruisce lo Stato di polizia, lo stesso partito nazionalfascista viene ridotto a mero luogo di ascolto, dove si prendono solo formalmente le decisioni.
In una circolare Mussolini scrive: “il Partito e le sue gerarchie, a rivoluzione compiuta, non dovranno essere che uno strumento consapevole della volontà dello Stato, tanto al centro che alla periferia”.
Da quel momento gerarchi e prefetti cercheranno solo incarichi, soldi da gestire, benemerenze più o meno meritate. Mussolini si dedica anima e corpo alla creazione di una nuova generazione di fascisti: “creeremo attraverso una opera di selezione ostinata e tenace, le nuove generazioni, e nelle nuove generazioni ognuno avrà un compito definito”.
Sono anni dove si moltiplicano, giorno dopo giorno, il numero dei cantieri, si iniziano opere di ogni tipo: ferrovie, ponti, scuole, bonifiche, case. Mussolini intuisce che deve salvare la lira dall’aggressione dei mercati finanziari internazionali. Taglia i salari del 10 per cento, ma in cambio introduce severe politiche di controllo del costo della vita, prezzi bloccati, crea nuova occupazione. Si occupa “della salute fisica” del suo popolo. Si avvale di persone che non hanno fatto come lui la gavetta, come il conte Giuseppe Volpe, chiamato al governo per quietare Confindustria, ma che si rivela un ministro competente e fattivo.
Uno degli uomini nuovi, decisivo nell’aiutare Mussolini in questa sua rapida metamorfosi da capo di un movimento rivoluzionario in un uomo di Stato, è Augusto Turati. Turati è un bresciano di buone maniere, fascista della prima ora, ex campione olimpico di fioretto. Mussolini lo sceglie come segretario del Partito al posto di Roberto Farinacci. Farinacci ha ormai passato il segno in diverse occasioni, facendo infuriare il Duce. Il gerarca di Cremona ama sentirsi l’interprete autentico dell’ortodossia. È l’anima estremista e intransigente del fascismo, rappresentante di tutti coloro che dichiarano di essere insoddisfatti per lo spazio che Mussolini concede alla parte moderata e corrotta del paese.
La goccia che fa traboccare il vaso e convince Mussolini a cacciare Farinacci da segretario è la scelta di quest’ultimo di difendere Amerigo Dùmini e gli altri assassini di Matteotti al processo di Chieti. Dopo qualche settimana il Duce “accetta” senza neanche dirglielo le sue dimissioni e nomina Turati. Il compito del nuovo segretario è assai gravoso: dovrà normalizzare il partito, epurarlo dai corrotti, dai violenti, da tutti coloro che vi sono intrufolati solo per ricavarne qualche vantaggio. Turati svolgerà con serietà il suo lavoro e Mussolini rivolgerà in più occasioni parole di apprezzamento. Farinacci non demorde, ma il Duce è severissimo e gli scrive: “ti ripeto, obbedisci a Turati, riconciliati con Federzoni, riconciliati con Balbo, .. e soprattutto evita la massoneria”.
Nonostante gli attacchi personali che continuerà a ricevere da Farinacci e dai suoi accoliti, e le dimissioni che più volte rimette nelle mani del Duce, Turati resisterà nell’incarico fino al dicembre del 1930, quando, stanco, lascia. Da quel momento Mussolini lo abbandona al suo destino, consente che i suoi vecchi nemici si gettino su di lui come belve e che sia sbranato da calunnie e accuse inventate di sana pianta da Farinacci che non lo ha mai perdonato. Finirà in manicomio, al pari di un malato di mente.
L’altra figura chiave di quegli anni è il fratello del Duce, Arnaldo Mussolini. Uomo mite, colto, cattolico praticante, Arnaldo è l’unica persona di cui il capo del governo si fida veramente. Con cui si sfoga spesso al telefono, a cui chiede consiglio. Arnaldo disprezza profondamente Farinacci e con lui tutti quei fascisti che mal sopportano la trasformazione che Mussolini sta imponendo al partito. Ha ottimi rapporti con Turati, controlla per il fratello la piazza difficile di Milano, affidata al prefetto Ernesto Belloni, che ne diventa anche podestà. Gestisce segretamente i passaggi più difficili della trattativa con il Vaticano per mettere fine al vecchio conflitto tra Stato e Chiesa. Sarà l’artefice dei Patti del ’29, che schiereranno definitivamente il clero italiano dalla parte di Mussolini. Anche lui subirà – dopo Turati – una sorte simile, tirato in ballo in dicerie e calunnie costruite ad arte dalla solita banda di Cremona. Quando il fratello alla fine consegna il partito ad Achille Starace, usa parole durissime e si allontana. La morte prematura del giovane figlio lo spinge ad immaginare per la sua famiglia un futuro da agricoltori in Libia. Ma morirà per un infarto improvviso nel 1931, a qualche mese dai festeggiamenti per il decimo anno della marcia su Roma.
Giovane ed emergente è anche il nuovo capo della polizia, il prefetto Arturo Bocchini. Beneventano, buongustaio e donnaiolo, Bocchini è l’uomo che trasforma la sonnacchiosa polizia italiana in una moderna polizia politica. Stringe gli oppositori nella fitta rete di informatori in Italia e all’estero, fonda il Tribunale speciale, fornisce al Duce ogni mattina dossier riservati sulle persone a lui più vicine, compresa quella scapestrata della figlia Edda. Bocchini sa perfettamente cosa vuole il Duce, lo asseconda, lo illumina. Userà gli attentati del 1925 – ad opera di squilibrati e senza alcuna possibilità di riuscita – per creare il mito dell’uomo che affronta il pericolo senza paura, il superuomo.
Sono anche gli anni in cui il regime pretende di piegare ogni resistenza in Libia. Le colonie che si affacciano sul Mediterraneo sono considerate dal fascismo la chiave per dimostrare al mondo che l’Italia fa sul serio. L’uomo che più di ogni altro interpreta questa volontà è Rodolfo Graziani. Il giovane e ambizioso generale sarà il protagonista della guerra spietata e senza regole alle tribù che non si piegano. Le insegue – oasi dopo oasi – nel deserto sconfinato, usa i gas iprite e fosgene, autorizza i suoi uomini al saccheggio, non fa prigionieri e umilia le donne, i vecchi e i bambini, ammassandoli in luridi campi di concentramento. Dopo la vittoria di Tagrift divenne un eroe nazionale, insignito di medaglie e riconoscimenti, ed è nominato vice-governatore della Cirenaica.
Tra le donne che Mussolini frequenta e usa – in genere per non più di 15 minuti e con i pantaloni sulle caviglie – vi sono spesso prostitute, finte contesse, artiste di varia natura e nazionalità. Al contrario sono due le donne che risultano davvero importanti in questi anni. Una è la figlia Edda. Il Duce fatica non poco a trovare un marito adatto alla sua irrequieta primogenita. Sarà proprio il fratello a suggerirgli la soluzione migliore, quella del figlio del conte Costanzo Ciano, Galeazzo. Un giovane della nobiltà senza particolari ambizioni, ma di bell’aspetto e con un futuro da diplomatico.
L’altra donna è sempre Margherita Sarfatti. La ricca e colta signora che lo aveva introdotto nei salotti milanesi, lo aveva ben vestito, lo aveva amato senza limiti e che, forse, era stata anche ricambiata. Ma anche con lei Mussolini è spietato. Dopo averle addirittura affidato in gran segreto il compito di indirizzare la formazione della figlia, la abbandona. La Sarfatti è invecchiata male, è ingrassata, si trucca in maniera eccessiva, e questo deve aver avuto un peso determinante sul comportamento del Duce. Per di più vuole continuare ad avere un ruolo dominante nella cultura italiana del Novecento, organizza mostre, dibattiti, scrive libri. È forse la pagina più triste del libro. L’abbandono della sua amante è totale e vistoso. Ne prende pubblicamente le distanze, non la invita più alle numerose iniziative a cui partecipa. Fino a lasciarla aspettare più di due ore fuori dal suo ufficio a Palazzo Venezia, per poi farla licenziare dall’usciere. Quinto Navarra, il silenzioso cameriere che seguirà Mussolini in ogni residenza da presidente del Consiglio, ricorderà nelle sue memorie quel momento come “l’ordine più sgradevole che dovetti eseguire”.
Mussolini, giunto al decimo anno del suo regime, si ritrova così come un uomo solo, abbandonato dalle persone migliori e più fedeli, nelle mani dei peggiori, famelici, corrotti e violenti uomini del regime. Lui lo sa, e crede di poter gestire ogni cosa. Ma il Duce non guarda a sufficienza neanche dentro di sé. Non sa che anche lui è in procinto di tirar fuori la parte peggiore di stesso, quella parte che ha saputo tenere a bada grazie all’aiuto dei migliori amici che ora sono andati via. Il fatalismo a cui si ispira lo conduce a considerare ogni cosa utile ma inevitabilmente superata da quella successiva, come “l’aratro volge al sole le energie della terra, il seme germoglia annientando il solco. Il seme dà fiore, il frutto divora il seme e l’uomo raccoglie e consuma il frutto annichilendo tutto ciò che lo ha preceduto”.
La metafora che racchiude la sua visione del mondo, degli amici, dei nemici, di tutto ciò che lo circonda. E che lo divorerà.