Nel quarto libro degli Stromati, la miscellanea dedicata alla figura del perfetto cristiano, Clemente Alessandrino affronta il grande tema della testimonianza e del martirio. Come è noto, il termine greco martyrion, dal significato pagano di testimonianza in un processo, passa nel greco cristiano ad indicare la testimonianza della propria fede in Cristo, sia come dichiarazione a parole (in latino più propriamente confessio) sia come effusione di sangue. Quando Clemente scrive, fra la fine del II secolo e l’inizio del III, la persecuzione dei cristiani è drammaticamente diffusa in molta parte dell’impero e ha suscitato, oltre a grandiosi esempi di fedeltà ed eroismo, anche polemiche e dissensi, che nascono da teorie eretiche.



Clemente rifiuta la posizione di chi si offre volontariamente al martirio per disprezzo del corpo, a somiglianza dei fachiri orientali: “Biasimiamo anche noi quanti si precipitano verso la morte: infatti vi sono persone non dei nostri, in comunione solo di nome, che si affrettano a consegnarsi per odio verso il Creatore: i miserabili assassini! Di costoro diciamo che si tirano fuori dalla vita senza martirio, anche se vengono puniti pubblicamente. Infatti non conservano il carattere del vero martirio, in quanto non riconoscono il vero Dio, ma si consegnano a una morte vuota, come anche i Gimnosofisti degli Indiani a una vana pira. Ma poiché questa gente dal falso nome calunnia il corpo, imparino che anche l’equilibrata armonia del corpo collabora col pensiero per la buona natura”.



Il fatto è che Clemente, formato alle scuole filosofiche di Platone e degli Stoici, deve far fronte, anzitutto in se stesso, alla tentazione di disprezzare il corpo, “tomba dell’anima” per Platone, e svalutarne le manifestazioni: “È degna di stupore anche l’affermazione degli Stoici, i quali dicono che l’anima non è per nulla condizionata dal corpo, né in male in caso di malattia né in bene in caso di buona salute: essi dicono che entrambe queste condizioni sono indifferenti”. La riflessione sull’integrità della persona e le reciproche influenze delle sue parti, guidate dall’eghemonikòn, l’elemento guida di tutto l’essere umano, percorre l’intera opera di Clemente, ed ha il suo fondamento continuamente ribadito nell’idea centrale della bontà di tutta la Creazione e della realtà dell’Incarnazione di Cristo.



Ma se Clemente rifiuta il fanatismo di chi corre al martirio per disprezzo del corpo, dissente anche da chi lo svaluta come una sorta di suicidio, invece di un atto d’amore, in base alla tesi gnostica che l’unica vera testimonianza è la conoscenza; e dissente anche dall’altra posizione gnostica che distingue la confessione fatta a voce da quella testimoniata con la vita, quasi che quest’ultima fosse intempestiva e troppo tardiva: vi sono stati martiri che hanno professato la fede fino alla morte pentendosi alla fine della vita e distaccandosi in una sola volta dalle passioni.

Di fronte alla questione se sia giusto cercare di evitare la persecuzione (lo stesso Clemente lasciò Alessandria e si rifugiò nella più tranquilla Cappadocia), l’autore si richiama al monito evangelico “Se vi perseguiteranno in questa città, fuggite in un’altra”, non perché sia un male la persecuzione o la morte, ma per non essere corresponsabili della colpa dei persecutori.

Ma di chi è la colpa della persecuzione e perché il Signore la permette? Questa domanda ritorna molte volte nell’opera, a proposito di ogni forma di male nel mondo, e ha sempre come risposta che la responsabilità è dell’uomo libero: così il Signore non ha voluto la persecuzione, ma ci ha preavvertiti perché fossimo forti; e la responsabilità dell’iniqua sentenza è del giudice, Dio non ne è responsabile ma non l’impedisce; se non siamo soccorsi dal Signore è perché la morte ci libera per andare da Lui, anzi, se siamo martiri per amore, dobbiamo essere grati ai persecutori.

Sono così respinte le tesi eretiche secondo cui il perseguitato sconta colpe di un’altra vita, oppure vi è una stirpe di eletti superiore alla morte. Ma va considerata anche l’azione del demonio, che tenta il cristiano per impedirgli di testimoniare fino in fondo la propria fede: il martire “testimonia per sé di essere un vero fedele nei confronti di Dio e per chi lo mette alla prova di avere vanamente tentato chi è fedele nell’amore”.

La testimonianza del martire rafforza la predicazione della parola di Dio, rendendola più certa: “ancora di più conferma col suo operare la verità dell’annuncio, mostrando che è potente il Dio verso cui si accinge ad andare”. Secondo la sua usuale modalità di argomentare, Clemente si appoggia su passi biblici: “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”, come dice Paolo. E ancora: “Ma se anche soffriamo per la giustizia, beati noi! − dice Pietro −. Non temete per paura di loro e non sgomentatevi, ma santificate il Signore Cristo nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi, ma con mitezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio soffrire operando il bene che facendo il male, se così vuole la volontà di Dio”.

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