“Se Cristo non è risorto, è inutile la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che si sono addormentati in Cristo sono perduti” (1Cor 15,17-18). La risurrezione di Gesù cambia tutto: la nostra condizione, il fine della storia umana, il nostro destino e quello dei nostri cari defunti. È qualcosa di centrale e decisivo.
1. Eppure bisogna ammettere che nella coscienza diffusa del popolo cristiano questa centralità dell’annuncio della risurrezione non è percepita con la stessa forza con cui è affermata dal Vangelo e dalla predicazione della Chiesa. Di fatto la festa di Natale, o meglio, come oggi si usa dire, la “magia” del Natale è molto più sentita e celebrata rispetto alla sobria solennità della Pasqua. Non si tratta certo di mettere in concorrenza due feste importanti. Del resto, a ben pensarci, la festa di Natale può essere riscoperta nella sua valenza di “festa di compleanno del Risorto”, ossia come commemorazione della nascita di una persona ancora vivente, che è tra noi in una condizione di vita piena, al di là della morte. Per chi crede in Cristo non si tratta di ricordare un grande uomo del passato, un ebreo speciale ormai scomparso. Si tratta invece di festeggiare il compleanno di un uomo che vive ancora, al di là dei confini della morte e quindi ci è contemporaneo e ci provoca ora con la sua presenza, avendo sconfitto la realtà più universale al mondo, cioè la morte. In questo modo il mistero pasquale getta la sua luce anche sul Natale e ci aiuta a riscoprirne il vero senso, che non può essere ridotto al generico farsi uomo di un Dio umile.
Non è indifferente precisare che il fine dell’incarnazione è un destino di vita nuova, di trasfigurazione dell’umano, che proprio lo scambio salvifico tra Dio e uomo intendeva realizzare da sempre: Dio si è fatto ciò che noi siamo, per farci ciò che Lui è e introdurci nella sua vita eterna.
L’incarnazione non dice solamente il farsi presente di Dio nel nostro mondo finito e limitato. Intende mettere nel nostro terreno un seme di vita nuova, capace di superare i confini della morte e di inserirci nella vitalità divina. A Natale festeggiamo quel Gesù che fu confessato come Figlio di Dio tra noi proprio perché ha vinto la morte e ci ha introdotto nel suo intimo contatto con Dio Padre per la forza dello Spirito di vita (Rm 1,3-4).
2. Risuona, in questa situazione paradossale, la stessa difficoltà a credere nella risurrezione che l’apostolo Paolo sperimentò nell’Areopago di Atene (At 17,32). Ma si tratta di una resistenza che ritorna nelle diverse epoche fino ai nostri giorni: “La risurrezione è sempre caduta nel ‘punto cieco’ della retina pensante. Non si trova un pensatore che l’abbia vista come un alimento dell’intelligenza o che abbia almeno tentato di metterla fra gli alimenti possibili. Essa non è per il pensiero un mistero che possa dare un alimento, una spinta: è un elemento inassimilabile” (J. Guitton).
La ragione di tale resistenza viene spesso cercata in un deficit di esperienza oppure in una comprensione della natura umana inadeguata o nell’utilizzo di schemi di pensiero e linguaggio arcaici (basati su termini ormai lontani dalla sensibilità comune: soprannaturale, miracolo, vita eterna, cielo). Eppure si percepisce in queste difficoltà che un discorso sulla risurrezione è esigente e non immediato proprio perché chiede di collocare l’evento della risurrezione di Gesù in un orizzonte di senso differente, ovvero in una concezione nuova della vita e dell’essere, all’altezza del mistero stesso. Si tratta di convertire il pensiero alla novità della risurrezione, piuttosto che ripensare la risurrezione in base alle possibilità del pensiero.
Coglieva bene la radicalità di questa sfida al pensiero Benedetto XVI, nel secondo volume dedicato a Gesù di Nazareth: “Potremmo considerare la risurrezione quasi come una specie di mutazione radicale in cui si dischiude una nuova dimensione della vita, dell’essere uomini. Anzi, la stessa materia viene trasformata in un nuovo genere di realtà. L’uomo Gesù ora appartiene proprio anche con lo stesso suo corpo totalmente alla sfera del divino e dell’eterno. […] Anche se l’uomo, secondo la sua natura, è creato per l’immortalità, solo ora esiste il luogo in cui la sua anima immortale trova lo ‘spazio’, quella ‘corporeità’ in cui l’immortalità acquisisce senso in quanto comunione con Dio e con l’intera umanità riconciliata. Le lettere della prigionia di san Paolo ai Colossesi (1,12-23) ed Efesini (1,3-23) intendono questo quando parlano del corpo cosmico di Cristo, indicando così che il corpo trasformato di Cristo è anche il luogo in cui gli uomini entrano nella comunione con Dio e tra loro e così possono vivere definitivamente nella pienezza della vita indistruttibile. […] Nella risurrezione è avvenuto un salto ontologico che tocca l’essere come tale, è stata inaugurata una dimensione che ci interessa tutti e che ha creato per tutti noi un nuovo ambito di vita, dell’essere con Dio”.
3. La risurrezione cambia tutto: il mondo, dopo la risurrezione, è divenuto altro. Anzitutto la risurrezione di Cristo avviene nel mondo finito, sbaragliando ogni dualismo: questo mondo contingente e finito diventa il luogo di un possibile incontro con una presenza di Dio che dà spessore nuovo e un nuovo significato a tutte le cose e alle circostanze della vita: si tratta di tracce di vita eterna. Il mondo non viene sdoppiato, non si creano due mondi, ma due maniere di vivere nel mondo, poiché la risurrezione inaugura un nuovo modo di guardare il mondo, che risuona nell’eternità: “Il mondo è divenuto altro, per il fatto che io sono divenuto altro”. Come direbbe Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Si deve quindi dire che la risurrezione inaugura per noi, già oggi, un altro modo di vivere nel mondo: “Né altro mondo, né evento del mondo, la Risurrezione si mostra qui nel suo vero aspetto, come trasformazione del mondo e dell’uomo in esso” (E. Falque, Metamorfosi del finito). La risurrezione è esperienza di una trasformazione: “Noi tutti saremo trasformati” (1Cor 15,51). Essere incorporati in Cristo risorto significa allora che Dio accoglie in se stesso l’uomo, per operare in lui la stessa trasformazione di Gesù. Risorgendo in lui, anche noi sperimentiamo un “allargamento e trasformazione dei nostri limiti grazie all’estensione del nostro corpo alle dimensioni della corporeità divina di Cristo risorto”.
4. Il problema dell’esperienza però rimane aperto e diventa spesso un’obiezione che può apparire banale eppure ha una sua forza: se è davvero Risorto, perché non è rimasto tra noi come presenza visibile, sperimentabile, da portare sulle piazze o in televisione così che tutti lo potessero vedere per credere? Perché il Risorto si nasconde, sparisce appena è stato incontrato e riconosciuto?
La domanda è interessante anche perché nasconde il desiderio di una certezza, il bisogno di un’esperienza forte e reale, che possa aprire un orizzonte più vasto e promettente nel cielo dell’esistenza personale. Ma soprattutto colpisce per la nostalgia di un incontro che possa cambiare la vita. Eppure rimane l’inafferrabilità del Risorto, che, appena è incontrato e riconosciuto, scompare.
L’indicazione più interessante, per rispondere all’obiezione, viene dall’incontro di Gesù con Maria Maddalena, in quel giardino che ricorda il giardino di Eden, dove si incontrano Adamo ed Eva, figure dell’umanità all’origine. Appena la Maddalena riconosce Gesù che la chiama per nome lo vorrebbe afferrare per tenerlo con sé. Ma Gesù si sottrae, ricordandole la cosa più importante: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre” (Gv 20,17). La cosa decisiva è il Padre, fondamento affidabile della vita e certezza di un destino buono, più forte della morte. Il bello della risurrezione, la certezza che c’è in gioco in questo avvenimento singolare è l’amore del Padre, fondamento affidabile di tutto, quel Padre che sa di cosa abbiamo bisogno prima ancora che lo chiediamo. È significativo il fatto che la risurrezione non sia raccontata, né interessa descrivere Gesù risorto (che mangia coi discepoli ma attraversa i muri; compare all’improvviso e non è riconosciuto subito, perché è il medesimo e altro, e appena è riconosciuto scompare; si fa toccare da Tommaso ma resta inafferrabile).
Non importa raccontare il Risorto. Bisogna tornare in Galilea, ripartire dall’inizio del cammino con Gesù per rileggere tutta l’esperienza vissuta con Gesù a partire dal suo fondamento affidabile e più forte della morte, ossia “il Padre suo”, quella verità che Gesù stesso aveva anticipato, ma i discepoli non avevano mai ben compreso: “Quando risuscitò dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che egli aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alle parole che aveva detto Gesù” (Gv 2,22). Il Risorto cambia tutto perché ci mette in relazione col suo contatto con Dio Padre, un contatto nuovo, una comunione profonda che vince il male (malattia, peccato, demonio) e la morte, dischiudendo orizzonti di vita inattesi, eppure da sempre sperati.
5. Impressiona notare con Benedetto XVI come questa esperienza del Risorto abbia avuto la forma di una “ordinarietà singolare”: nessun effetto speciale, nessuna risonanza psicologica eccezionale, nessuna visione straordinaria, ma un incontro quotidiano, fatto di gesti semplici come il mangiare insieme, il conversare, il salutare e condividere… tutte cose vissute prima con Gesù e rivissute ora ad una nuova profondità, nella quale quei gesti ordinari hanno sapore di vita eterna, sono anticipazione di una comunione con Dio Padre (nello Spirito del Figlio) che si gioca nella realtà finita di ogni giorno, eppure è indistruttibile; sono gesti che hanno la consistenza e l’intensità di un essere nuovo, più forte del male e della morte. Abbiamo bisogno di questo sapore della vita quotidiana vissuta con Gesù, illuminata dalle sue parole e aperta alla sua presenza, per accorgerci che tutto trova in Lui consistenza e quindi verità.
Buona Pasqua di risurrezione.
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