È giunto in Italia – per Il Canneto – Il malessere turco: un volume che il politologo Cengiz Aktar, turco d’origine ma cosmopolita di formazione e cursus – aveva concepito come riflessione per il centenario della caduta dell’Impero ottomano, nel 2022. Ma il precipitare della crisi geopolitica fra Russia e Ucraina ne ha fatto una sorta di un instant book d’eccezione: anche in vista delle elezioni in calendario quest’anno in Turchia, cariche d’incombente incertezza come tanta storia fra Istanbul e Ankara.



Il saggio (tradotto e curato da Carolina Figini e Viviana Vestrucci) è agile quanto ambizioso nel riassumere e interpretare una dialettica storica di respiro millenario e di scala globale: quella fra Occidente e Oriente. Vi sono infatti pochi dubbi che il Bosforo rappresenti un’interfaccia fors’anche più sensibile e decisiva di quella tornata a infiammarsi a Kiev. Le “colonne d’Ercole” di Costantinopoli continuano ad essere attraversate incessantemente, da secoli: da una sponda all’altra, dal Mar Nero al Mediterraneo. Sempre contese, aperte e poi chiuse e poi riaperte. Di volta in volta “Porta” oppure muro, ma sempre al centro di eventi che vanno al di là di una nazione o di un luogo geografico. Dal “Fatih” Maometto II che la conquistò agli ottomani nel 1453 fino a Recep Erdogan. Passando, appena un secolo fa, per l’“altro Olocausto”, quello armeno. Subito seguito però dall’esperimento illuminista dei Giovani turchi, un secolo dopo la rivoluzione francese sulle ceneri di una monarchia islamica.



Il “malessere turco” viene da lontano e – come sottolinea il pensoso “epilogo” del volume – ha molte chance di andare ancora lontano, come condizione critica sempre attiva fra Europa e Asia. Un disagio immanente e paradossale: il progetto di portare la Turchia nella Ue è iniziato poco dopo i Trattati fondativi di Roma e sembrava che Ankara potesse addirittura precedere altri Paesi dell’Est Europa nella stagione del grande allargamento, a cavallo del millennio. Ma come acutamente osserva Aktar – oggi significativamente professore aggiunto all’Università di Atene – sui tavoli di Bruxelles, Berlino e Parigi non era in discussione l’integrazione “dell’Altra Europa” (tale solo nei pochi decenni della Cortina di ferro) ma del più autentico “Altro d’Europa”: la civiltà che, per mezzo millennio, ha costituito uno dei più solidi e complessi “benchmark” su cui l’Europa ha costruito sé stessa più di quanto voglia ammettere. Tanto che per una leader come Angela Merkel (ma non solo) la Turchia di Erdogan è stato l’esatto contrario di un “barbaro alle porte”.



Ma non era certo Attila – né Osama bin Laden – Maometto II, protagonista vivo e assoluto dell’erdoganismo al Museo Storico Panorama 1453 (una “Disneyland ottomana” progettata dal presidente quando era ancora sindaco di Istanbul) piuttosto che in Conquest 1453, un kolossal divenuto perennial nei cinema turchi. È un personaggio, il primo imperatore ottomano “moderno”, che – certamente più di quello attuale – vuole stare seduto a tutti i tavoli europei: quello della cultura greca, fondante nel Mediterraneo; quello del sofisticato intrico religioso (fra islam, cristianesimi continentali e ebraismi), non ultimo quello del lungo incontro/scontro con Venezia.

Aktar conferma e riassume nel libro il suo rifiuto noto per la “Nuova Turchia” di Erdogan, autocrate pochissimo rispettoso della ricchezza e della profondità della civiltà turca; gran costruttore di carceri e responsabile di troppe migliaia di morti “sommarie”, entro i confini turchi e attorno. Però la sua vera amarezza sembra tornare all’eterno “malessere” di un Paese che è e si sente naturalmente attratto dall’Europa ma ne viene puntualmente respinto o – più spesso – non riesce a essere all’altezza del suo ruolo di “Altro d’Europa”, necessario perfino alla Ue (e non solo per compiti spicci come la gestione dei flussi migratori dall’Asia). Alla “bancarotta turca” (economica, sociale, geopolitica) Aktar affianca – e forse sembra preferire – il prosieguo del malessere turco come condizione di sopravvivenza: dando seguito a un ciclo finora ininterrotto di “incomprensioni e cieco distacco, tra rappacificazione e complicità, contenimento e paura di vedere questo grande paese implodere e disintegrarsi”.

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