L’uomo che guardava la montagna – certo di continuare a guardarle oltre la vita – è il monaco che contempla Dio in un’alta valle, chiuso in un convento circondato da alte pareti, nutrito dai montanari attraverso una ruota. Nel libro di Massimo Calvi, appena pubblicato da San Paolo, gli eremiti non mancano: così come i briganti e gli assassini, figure classiche per chi si avventura con la penna fra le cime.
Ma i protagonisti di un singolare “romanzo di formazione” – perché questa sembra essere la categoria critica più adatta all’opera prima (letteraria) del giornalista di Avvenire – sono uomini e donne reali: cioè padri, madri, figli, nonni che vivono intensamente le loro vite normali lontano dalle montagne. Anche se è poi fra i monti che imparano a guardare la vita – le loro vite e quelle degli altri – e tutto diventa via via più nitido, luminoso come un’alba o sereno come un tramonto in quota: il segreto della gioia e il mistero del dolore, il senso della nascita quando la morte chiama.
È in montagna che la stessa fede diventa respiro esistenziale, ossigeno della coscienza. Gesù che ti cammina a fianco in un bosco avvolto nelle nuvole, che s’immerge con te in un laghetto freddo anche se la mamma non vorrebbe (ma la vita è anche rischio, è inesausta ricerca di misura, è affidarsi).
Da “bastone” a “paradiso”, da “neve” a “cimitero”, da “eco” a “carezza”. “Scorciatoia”, “corsa” e “sogno”; “concime” e “anello”. Fra le pagine spunta anche la parola “Gps”, ma non sorprende che la voce narrante la rifiuti come bussola della vita in montagna, cioè della vita tout court. In alto – come nei giorni in pianura – non può essere la tecnologia a salvarti: è invece la capacità di leggere le penombre, di distinguere le armonie della natura, di annusare la cenere, di capire prima quando un torrente finisce in una forra. Di addentare un panino preservato per il momento giusto.
Vivere (viversi) in montagna è un gioco (adulto, talora “selvatico”) di forza e di memoria, di “fuoco” e di “soste” (e anche di “miele”). Di “giovani” e di “vecchi”, tutti verso “l’aldilà”. La “croce” ne è il più concreto dei simboli: metallo grezzo plasmato dall’uomo in una forma essenziale. Piantato su una cima, immobile, nei venti e nei tempi. Ma è un uomo vivo che l’ha portata in cima: salendo ed esplorando. E dal punto più alto quel simbolo continua ad osservare quell’uomo più in basso nel suo peregrinare agitato.
“Un album d’acquarelli” ha provato a schermirsi l’autore. Ma il passo profondo del libro è profondamente narrativo: anche quando sembra – a tratti – un diario dell’anima. Chi è quell’uomo che è venuto a morire in montagna, anzi: a vivere la sua morte guardando le montagne, le sue?
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