Caro direttore,
è morto un mio carissimo amico e confratello, don Arnaldo Martinelli (1932-2024, ndr), che avevo appena visitato più volte in questi giorni e che avevo visto già pronto per questo momento. Lo era da tempo, da molto tempo, forse da sempre.

Naturalmente sono già arrivati i messaggi affettuosi e devoti degli amici. Quello che personalmente non mi piace, e non da oggi, è l’abitudine di dire, quando uno muore, che “è salito al cielo” (di solito con la C minuscola).



Per carità, è implicita l’affermazione della nostra fede nella vita eterna. Che non si sia destinati a marcire, in una specie di raccolta indifferenziata a cui sarebbero ridotti i nostri cimiteri. Per questo nel funerale cattolico si benedice ed incensa il corpo del defunto, sottolineando il valore di tutta la sua persona e il suo destino di Resurrezione.



Ecco, di Resurrezione. Perché Gesù prima di noi è veramente risorto, come diciamo nella Veglia pasquale, ma prima è veramente morto. Appunto morto sulla croce. Non è stato rapito dagli angeli come dice il Corano nella Sura IV, vv. 157-159, per evitare che subisse la vergogna di morire in croce.

Gesù, secondo il cristianesimo, è veramente morto e solo dopo la Resurrezione è asceso al Cielo. Che il fatto stesso della Resurrezione ci porti fuori delle dimensioni di spazio e tempo in cui viviamo è chiaro, ma questo non ci deve far censurare il fatto e la parola della morte che lo esprime.



Oggi per molti è un tabù parlare di morte. Per me, per noi cristiani, come lo fu, come lo è, per i martiri, la morte, pur essendo un’esperienza spesso terribile, non è qualcosa di cui avere terrore, ma da affrontare con la speranza (certezza nel futuro) di poter andare da Gesù. Che non mi sembra sia poi così male.

Comunque, quando morirò, se sarete ancora in vita, non abbiate paura di dire che sono morto e quindi di pregare per me. Anche perché se cominciate a dire che sono già salito in cielo, perché mai dovreste pregare per me?

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