“Il contrario della verità non è la menzogna: è la narrazione”, aveva scritto, ai tempi delle più accese dispute sul coronavirus, un filosofo tedesco; ed è un aforisma che merita di sopravvivere al di là della sua occasione originaria, perché ridimensiona la ormai insopportabile (ma lo era già ai tempi di Ponzio Pilato) retorica della Verità con la maiuscola, e al tempo stesso ridimensiona la sua trasformazione alla moda: la retorica della narrazione.
Verità è un concetto rigido, abbreviato, esclamativo, un’immagine fissa, difficile da maneggiare. D’altra parte, ogni narrazione è artefatta, è piena di trabocchetti, si muove fra i “detti” e i “non-detti”. Così, la narrazione è diventata un mito infantilizzato e pseudo-terapeutico, o l’ennesimo trucco politico-ideologico. Come evitare allora il nichilismo?
Cercando di mettere l’iniziale minuscola alla parola “verità”, e così riconoscere il suo lato inevitabilmente soggettivo ed esplorativo; e cercando di ascoltare per un momento chi sulla narrazione lavora, come i romanzieri, i poeti, i pensatori, i critici letterari, questi quasi invisibili interpreti della società. I quali (nella loro pratica come nelle loro analisi) ci mostrano che tutti i doppi fondi, gli avanti e indietro, le rugosità, le ombre, le contraddizioni di ogni narrazione sono tali non per il piacere perverso di complicare le cose, ma perché così è la vita umana.
Il critico Giorgio Linguaglossa ha scritto recentemente in un suo blog: “Oggi la politica estera fa la pubblicità. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estera non può fare a meno che riappropriarsi delle procedure della pubblicità”. Si può obiettare subito che un discorso autenticamente poetico non è un discorso che “faccia della politica estera”, e che imiti lo stile pubblicitario; tuttavia quella brusca provocazione fa pensare, soprattutto in questi tempi.
Nessuna tragedia o melodramma classico possono essere messi in scena oggi senza che emerga sullo sfondo in qualche misura la “scena” politico-sociale contemporanea. E allora metti che, una sera di queste, ci si trovi a essere spettatori di una “moderna” interpretazione italiana di Giulietta e Romeo (o Romeo e Giulietta che dir si voglia) di Shakespeare. Un’interpretazione alla garibaldina, che punta tutto su un giovanilismo un po’ di maniera, trasposta in una Verona dei cosiddetti “giorni d’oggi” simile a una discoteca fra i boschi, e che smonta la poesia dei versi. Ma il genio dell’autore era un genio soprattutto teatrale: dunque, il nucleo tragico sopravvive a quello strapazzo, e riesce a commuovere anche in questa versione. È la passione nella sua forma sorgiva, adolescenziale: quasi animale e al tempo stesso piena di purezza senza confini, compresi i confini rispetto alla violenza.
Peccato però che la regìa disinvolta non abbia capito il vero colpo di genio di tutta la tragedia (che ci riporta in un certo senso alla “politica estera”), e abbia tagliato l’ultima parte dell’ultima scena, fermandosi al famoso duetto di amore e morte, alla fine del quale tutti, emotivamente esausti, saremmo pronti ad andare a casa. E invece la tragedia – quella dentro la tragedia – si rivela soltanto adesso, nelle poche battute finali di quel deus ex machina che è il Principe di Verona venuto (troppo tardi) a metter pace, il quale si rivolge ai due capifamiglia rivali:
“Ah eccoli qui, i nemici: Capuleti! Montecchi! / Guardate che flagello si abbatte sul vostro odio, / tanto che il cielo trova modo di uccidere le vostre gioie per mezzo dell’amore. / E anch’io, per aver chiuso un occhio davanti alle vostre discordie, / ho perso un gruppo di parenti: siamo tutti puniti!”. Basta un grande verso (That heaven finds means to kill your joys with love) per aprire un abisso nel quale il pensiero rischia di perdersi: è come dire che l’innamoramento dei due giovani è stato una punizione del cielo (o del destino) per le mal dirette “gioie” di queste famiglie, che sono invecchiate nel loro odio reciproco e adesso si trovano a sopravvivere miserabilmente ai loro figlioli.
Domanda: sì, ma che c’entra tutto ciò con la “politica estera” della poesia? Risposta: proviamo a immaginare (“Pensare, non è vietato”, dice la Carmen di Bizet) proviamo a immaginare una tournée di Giulietta e Romeo che si muova fra Ramallah e Tel Aviv, alternando la recitazione in ebraico con la recitazione in arabo. Ci sarà sempre chi sogghignerà: “Pensate forse di cominciare a non dico finire, ma rallentare, una guerra con una rappresentazione teatrale?!”. E, da che mondo è mondo, ci sarà sempre chi risponderà: “Perché no, Perché no?”.
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