Il cielo è un’unica grande nuvola grigia stesa sopra le case. Densa e compatta che non ci piove nemmeno una goccia attraverso. La luce della stella che ieri sfolgorava sopra la grotta è stata spenta, spente le luci dell’albero, pronte le scatole per mettere via per un anno intero, per un altro anno ancora, il paese di carta blu e di muschio dentro cui abbiamo fatto abitare pastori e pecore e uno specchio che era un lago per le oche. Pronte le scatole per mettere via un paese in cui il mugnaio arrivava con il sacco di farina sulle spalle, il giovinetto accendeva il fuoco, la ragazza attraversava il ponte con una piccola cesta di frutta in mano.



Il piombo del cielo che sembra premere sui vetri è una canzone triste che accompagna questo giorno degli addii, un rito che si ripete, che un po’ vorremmo allontanare. Che un po’, invece, vorremmo affrettare per toglierci di dosso la malinconia che ci prende. Così procediamo svelti: via le palline colorate, via i fili di luci calde, smontato e impacchettato l’albero che ogni anno diciamo di voler cambiare e invece ancora ci teniamo, piegati e riposti il cielo e la montagna, la terra con le chiazze d’erba e muschio.



Pulito e riposizionato il ripiano di cristallo dentro la libreria in cui il paese era nato un mese fa, tirato fuori l’aspiravolvere che si mangia via gli aghi del pino caduti e qualche striscia, qualche glitter di luce lasciato da palline, nastri e stelle. Il suo rumore senza grazia sembra mangiarsi via anche quella poca malinconica musica rimasta nell’aria: è una sentenza, la parola fine sulla fiaba bella che ci siamo raccontati.

Almeno così credevo io. Perché mentre cerco di ripristinare l’ordine dei libri e delle fotografie nel ripiano che si è liberato, mi accorgo che appoggiata lì nell’angolo c’è ancora la grotta: nuda, con soltanto il bue e l’asinello, Giuseppe e Maria e in mezzo a loro il Gesùbimbo nella culla. Che non è incollata al pavimento della grotta, ma si può togliere, prendere, portare via. È quello che ha fatto in tutto questo mese la nostra nipotina di due anni: entrava in casa e andava dritta al presepe, chiamava Gesùbimbo e se lo portava in giro.



Credevo che ci fossimo sbagliati, che nella foga malinconica di ordine che ci aveva presi, ci fossimo dimenticati fuori dai cartoni e dai sacchetti la cosa più importante da proteggere. Ma non è stato uno sbaglio. Lasciala lì, mi ha detto mia moglie. Trova il modo di metterla tra i libri e le fotografie, tra i fiori o tra i busti in gesso di Dante e Wagner, magari. Proprio sul ripiano dove stava prima. La piccolina l’avrebbe trovata ancora lì.

Certo tutto il paese intorno era sparito, adesso ce ne sarebbe stato un altro. Il nostro, quello vero, di ogni giorno. Ed è stata una bambina di due anni ad insegnarcelo di nuovo: con il Gesùbimbo che si porta a spasso, che mette sul divano e scalda con la copertina insieme alla sua bambola e all’orsetto. Che appoggia sopra il piano-tavolino del seggiolone e imbocca con il dodò – con il pomodorino – che a lei piace e non può non piacere a Gesùbimbo.

Io credevo che avessimo sbagliato a mettere via il Natale per una dimenticanza, per avere lasciato in giro quello che dovevamo portare su in soffitta. E invece lo sbaglio era diverso: era quello di pensare che una fiaba bella aveva fatto anche quest’anno il tempo suo e l’avremmo dovuta archiviare, magari come un bel ricordo, ma sempre messa via, in un angolo nascosto. Invece no. Ce l’ha insegnato Giorgia: continua a stare lì quel Gesùbimbo, dentro i giorni che verranno, tra le fotografie e dentro la vita, le cose che respirano ogni giorno. Tra noi che la guardiamo crescere con lui.

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